Posted by on 7 marzo 2016

 
 
 
solitudine©foto di Ivano Mercanzin

solitudine©foto di Ivano Mercanzin

“Parto sempre da una fotografia, quando scrivo. Il più delle volte immaginata. E’ come se da un fermo immagine scaturisca un’onda che si muove, a creare una storia. E’ quasi un lavoro di raccolta, il mio. Raccolta di voci che solo io sento e che se ne stanno lì, in attesa. Alla fine diventa un mutuo scambio: le mie parole fioriscono, e l’immagine prende vita. Molti lettori mi fanno spesso notare come nei miei racconti sia facile immedesimarsi, entrare nella scena descritta e sentircisi parte. E’ proprio questo, quello che accade. Quando un’immagine mi colpisce, dà spazio a un’ispirazione. E allora, l’unico mio fine è quello di renderla vivibile, farla divenire reale e dar modo a chi la leggerà di trovarsi proprio lì, nel preciso attimo in cui è nata. E’ un momento sacro, quasi magico, che tento in tutti i modi di preservare. Ecco perché mi capita spesso di immortalare una scena con la camera del telefono, nel tentativo di fissare il momento nel tempo, per non perderne nemmeno una sfumatura. Così, estemporaneamente, mentre cammino o mentre sto guidando, mentre sono lontana anni luce da quello che ho davanti. Riguardandolo, poi, le parole scivolano fuori e le storie si fanno raccontare. E più ci poso sopra lo sguardo, più le voci che sento si fanno rumorose, amplificando le diverse gradazioni del loro suonoRaccontare con parole e immagini dà maggior spessore a un’opera. Crea una magia e la fa parlare su più piani. Vuol dire renderla più facilmente fruibile. Aiutare i sensi. Allenarli a lavorare in contemporanea. Uscire dallo stereotipo delle arti divise. Rendere più completo un viaggio emozionale. Dovremmo farlo tutti… ogni giorno. Sarebbe bello saper dire a chi ci sta vicino: guarda questa fotografia, le vedi quelle nuvole grigie? Sono come il mio animo, oggi, incolore ed inquieto. Oppure: osserva i fiori sparsi su quel prato. Ora chiudi gli occhi e immaginane il profumo: è lo stesso che hanno i miei pensieri, quando penso a te. Sarebbe bello.” (Tania Piazza)

SOLITUDINE di Tania Piazza

E’ domenica, accidenti, non l’avevo calcolato quando ho deciso che avrei potuto prendermela con comodo, una volta tanto; la gente sembra riprodursi a ogni passo, e dannazione!, arriverò tardi, Oscar me ne dirà di tutti i colori. Non è una cattiva persona, anzi, solo che non tollera i ritardi e fino ad ora non gli ho mai dato modo di lamentarsi; oggi però è un giorno diverso, e quando mi sono steso a letto dopo aver mangiato gli avanzi di ieri sera, mi è venuta proprio voglia di fregarmene, senza l’assillo dell’orologio. Non ho messo la sveglia, e dopo un bel po’ di pensieri mi sono assopito con il suo sorriso negli occhi… Era da tempo che non mi capitava più. Di solito lo porto nel cuore, quel sorriso meraviglioso, ma prima mi è tornato negli occhi ed è stato come averla lì, nuovamente, incredibilmente. Ho sognato di un pomeriggio che avevamo trascorso insieme a camminare nel bosco, “Ho bisogno di respirare”, mi aveva detto. Così, con semplicità, come sempre faceva. Diceva le cose usando verbi che tutti i giorni utilizziamo, ma li rivestiva di un significato tutto suo. Era inverno, freddo e grigio, e ci eravamo vestiti con dei pesanti maglioni di lana, il largo cappello verde di quando andavamo a pescare e degli stivaloni per la pioggia. Come bambini affamati di vita, che non sanno riconoscere quel loro singolare appetito. E’ buffo, ma se mi volto ora a guardare i volti degli sconosciuti che mi stanno a fianco mi pare di sentire ancora il profumo dei pini mughi di quel pomeriggio. Il sottile sentiero di montagna che ricalca un po’ la stretta via di queste calli. Il colore del cielo, quando è talmente zeppo di nubi da divenire impenetrabile. E’ tutto come quel giorno, solo che lei non c’è. E intorno a me ho solo persone che non conosco e di cui non mi interessa nulla. Troppo colore, miriadi di cappotti e sciarpe, suoni, risate distorte e lontane, occhi orientali, occidentali, facce sorridenti e felici. Macchine fotografiche su nasi all’insù, zaini voluminosi che mi sfiorano, l’odore salmastro del mare che a tratti mi lambisce le narici, strappandomi il ricordo dei pini mughi. Non ce la faccio a non provare odio, non riesco a non invidiare chi viene qui con amici o parenti, in cerca di emozioni ed esperienze che diventeranno ricordi; quelli, io non posso più collezionarli. Respirare la felicità degli altri urta il mio cuore e non posso fare a meno di chiedermi, per l’ennesima volta, perchè. Mi chiudo per bene la cerniera della giacca, fino in cima, e abbasso il mento per infilarlo nel bavero, per reprimere l’impulso di gridare. Tiro fuori le mie cuffiette e scelgo l’ultimo album dei Green Day dal mio Ipod, ho bisogno di energia e non voglio fondermi col caos che mi circonda. Cammino veloce e provo quasi un’indegna soddisfazione nell’andare a sbattere addosso a chi mi ritrovo davanti; colgo sguardi infastiditi e stupiti, ma non me ne importa, bofonchio qualche incomprensibile scusa e proseguo sui miei passi. Sono quasi tutti stranieri, e in ogni caso nessuno capirebbe quello che avrei da dire. Ecco un’altra cosa che mi indispone, il pensiero di tutta questa gente che viene da lontano e occupa lo spazio, il mio spazio, qui lungo le strette viette che mi hanno visto felice. Che ne sanno loro di cosa significa davvero vivere, qui, andare a letto ogni sera con la piccola finestra vicino al bagno aperta e risvegliarsi ogni mattina con i rumori dello spazzino che raccoglie le immondizie all’alba, sentire le saracinesche del bar di Toni che piano piano si sollevano e fanno uscire poco alla volta il profumo del caffè e delle omelette calde come fosse un regalo, e i passi corti e distinti della signora Ana, poi, che prima dell’apertura va a fare le pulizie nel negozio di abbigliamento sotto casa. La magia di questo luogo sta in mille piccoli particolari che nessuno di loro può cogliere, andandosene, come tutti fanno, lungo i ciottoli che portano a San Marco, attraverso ponti e rialti, piazze e piccole corti. Fa freddo oggi, l’anno nuovo è iniziato da poco e l’inverno è ancora giovane, forte e minaccioso. Accelero il passo, più per la percezione del gelo pungente che per il ritardo; dentro di me fa capolino quella sensazione di sfida al mondo intero che ormai ben conosco, come se cercassi in ogni modo di provocare delle reazioni negative negli altri. Ne sono consapevole, ma non riesco a smettere: quando capirò dove nascono le radici dell’ingiustizia, allora forse me ne farò una ragione, ma fino ad allora fanculo il mondo. Toh, ecco cosa mi ci vuole: appena girato l’angolo vedo la gente rallentare per passare attraverso una serie di panche disposte a raggiera; in fondo a sinistra nella piazzetta c’è uno stand di legno chiuso ai lati per non far passare il freddo. Festa di chissà quale santo, mi pare proprio una buona idea fermarmi per un brulè bollente. Mentre aspetto il mio turno, l’odore pungente delle spezie mi riscalda un po’ l’anima; con il mio bicchiere poi mi scelgo un angolino sulla panchina che guarda al mare e me ne sto lì per non so quanto, la schiena girata in faccia al mondo e la musica nelle orecchie a proteggermi dal cicaleccio di chi mi ronza dietro. Penso a come tutto può cambiare in maniera irreversibile, quando lo si vede con occhi diversi, con occhi tristi e insanabili. Sono nato a Venezia e ci vivo da sempre, conosco ogni singolo angolo di questo luogo; gli edifici mi parlano, seguo l’avanzare della loro esistenza, muri che si scrostano e cambiano colore, crepe che diventano più vistose, panni stesi ad asciugare che si arrotolano al vento delle diverse stagioni. Ma tutto quello che mi è sempre stato familiare ora non riesce più a darmi sollievo. D’un tratto, appena appoggiata sul bordo dell’acqua, arriva una gondola, adagio; una coppia abbracciata sorride di un sorriso rivolto all’infinito, verso il gondoliere che immortala l’attimo felice con la macchina fotografica. Li vedo muovere le labbra, parlarsi e stringersi, e poi ridere, con le bocche spalancate da una gioia che non voglio sentire; alzo al massimo il volume dei Green Day, solo la musica nelle mie orecchie, un ritmo accelerato, che stride completamente con la scena che mi sta davanti, ma è così che mi sento io, non c’entro proprio più niente con questo mondo. Arrivo al ristorante con più di un’ora di ritardo, i tavolini esterni son già pieni, raggruppati attorno ai funghi che riscaldano l’aria della veranda. Non è una calle principale, non si vede il mare da qui, ma l’atmosfera è talmente raccolta che pare di stare in una pagina di un libro di favole, e farne parte. Oscar mi accoglie con uno sguardo minaccioso ma non mi chiede nulla, forse per non turbare la quiete dei suoi ospiti; un po’ mi dispiace, avrei voluto poter urlare, vomitare addosso a qualcuno il mio stato d’animo, mandare tutti a quel paese e andarmene via. Invece, entro subito nello spogliatoio, indosso la mia divisa e inizio il servizio. Dentro, il locale conserva una bellezza cristallizzata nel tempo: stretto e lungo, i lati adornati da piccoli archi di pietra antica. Ai muri è appesa la collezione di un fotografo amico del proprietario, immagini in bianco e nero che fermano il tempo. Ogni giorno, cerco di sfuggire a quelle foto, c’è qualcosa al loro interno che mi smuove l’anima, come un’indagine che scava in profondità in cerca delle emozioni più remote. Non fa per me, grazie. Passo tra i tavoli sorridendo alla gente, gentile, devo farli stare bene, rendere la loro permanenza a Venezia un’esperienza memorabile, perchè è questo il mio lavoro, ma me ne frego di tutti loro, detesto la loro felicità, la leggerezza dei loro pensieri, il loro tempo libero insieme alle persone care. Nella mia mente, riecheggiano i versi dei Green Day, continuo a cantare senza voce ed è ancora quel ritmo accelerato – così in contrasto con ciò che mi circonda – che mi fa stare a galla, che mi stacca completamente dal resto, che mi permette di sentirmi vivo, nonostante tutto. La serata procede come tante altre, mille volti diversi, mille storie che immagino felici. Il rituale è sempre lo stesso, sorrisi e piccoli inchini, consigli sul cibo tipico di queste zone, qualche parola in inglese, qualche altra in dialetto veneziano, quello che basta insomma per farli stare bene. La gente ride per delle sciocchezze. Servirli a questo modo mi permette un distacco che sento necessario, mantenere le distanze dalla vita che va avanti è ciò che mi aiuta a sopravvivere. Sono un sopravvissuto, mio malgrado. Di domenica, per fortuna le ore passano più velocemente. Non c’è un attimo di pausa, è tutto un crescendo di ordini scritti e piatti pronti da portare ai tavoli; ho meno tempo per pensare, e questo in qualche modo mi solleva, ma è sempre l’idea della chiusura che si avvicina, a deliziarmi. Il momento in cui torno nello spogliatoio, mi tolgo la divisa e mi vesto velocemente per tornare al più presto libero, fuori, tra le braccia della mia città che di notte mi fa riappacificare un po’ col mondo, ecco, è proprio questo l’attimo che preferisco in tutto il giorno. Sono già le due di notte, e il rumore che mi ha accompagnato all’arrivo non c’è più; è come se anche lui se ne fosse andato a dormire, insieme alla folla. Cammino lento, i ciottoli sono bagnati, a qualche ora dev’essere arrivata la pioggia. Quando lavori per tante ore chiuso in un luogo, ti perdi ciò che accade fuori; come quando te ne stai per conto tuo, nella vita di ogni giorno, e ti metti in pausa, chiuso nel tuo guscio, stai a guardare il mondo che vive e che respira e intanto ti perdi ciò che succede. E’ quello che faccio io, lo so, ma se quello che succede mi fa morire, allora preferisco perdermelo. Oggi era un giorno diverso, purtroppo, e per fortuna sta finendo; sono passati esattamente dodici mesi e ancora non mi do’ pace. A volte mi chiedo perchè questi maledetti giorni continuino a scorrere; se avessi il potere di cambiare le cose, non solo tornerei indietro, ma vieterei anche al tempo di esistere, di passare come se nulla fosse, di andare avanti, semplicemente perchè “avanti” non c’è più nulla. Scendo gli scalini e il rumore vuoto dei miei passi rimbomba lungo la discesa; sopra la mia testa, luci di Natale ancora appese sventolano all’aria gelida della notte, come se il vento fosse qui per prosciugarne i dolori, svuotarle e lasciarle libere di guardare alle stelle che di sicuro verranno. Ai lati, saracinesche nere abbassate sui negozi del centro, orfani di tutti i volti che li hanno abitati nelle ore passate, lasciati soli a riposare prima che la luce del giorno ritorni a illuminarli. Sono l’unico essere umano in questo angolo di Terra, la solitudine che vive ormai da tempo in me si specchia, trovando la sua gemella nello splendore di questo momento sospeso. E’ sempre questo, a curarmi, è l’anima di Venezia che si arrotola attorno alle mie ferite mettendole a tacere, perchè nelle ore della notte tutto deve tacere, anche il dolore di una morte, e si può solo andare avanti, camminare arrampicati ai propri pensieri, fianco a fianco con mille altre anime invisibili che non osano parlare, tra le calli sinuose ed eleganti, seguendo un filo che non c’è, annusando l’aria che punge senza schivarti, ammirati, consapevoli della propria infinita piccolezza, scorgendo talvolta un altro essere umano che avanza con le spalle curve, chiuso in se stesso, dai contorni indefiniti, con il quale scambiare un impercettibile sguardo di riconoscimento. Ecco la magia che mi porta ogni notte a Piazza San Marco, e anche stanotte la sua vista mi toglie il fiato; la pioggia ha lasciato a terra miriadi di minuscoli specchi artificiali e le luci dei palazzi fanno a gara per tuffarvisi dentro, rifrangersi e correre via, fino al cielo, fino alla sua stella, fino a lei. Per una volta, vi prego, portatemi con voi.

(RACCONTO CHE SI ISPIRA ALL’OPERA FOTOGRAFICA DI IVANO MERCANZIN “VENEZIA, VISIONI E ILLUSIONI”)

SETTEMBRE 27, 2015