video intervista di Alessia Glaviano per VOGUE ITALIA
Ho conosciuto ed intervistato il fotografo Jacob Aue Sobol, classe 1976, danese, a Parigi, in occasione della sua mostra Avec Toi, alla Maison du Danemark.
Il fatto che in mostra vi siano immagini tratte da diversi progetti di Jacob è fisiologico, perché nel lavoro dell’artista i luoghi e le date sono sempre e solo funzionali all’esperienza che egli stesso ha vissuto in essi: che siano tratte da Sabine, I, Tokyo, Arrivals and Departures e Home o Copenhagen, le sue immagini parlano principalmente di emozioni, condivisione. La presenza fisica e interiore dell’artista è riconoscibile in esse quanto i suoi tratti estetici distintivi, per cui i bianchi si staccano con violenza dai neri e non esistono mezzi toni – né stilisticamente, né psicologicamente: il fotografo si immerge nei suoi soggetti.
Jacob mi racconta come è nato il suo modo di scattare. A 23 anni si trasferisce a Tineteqilaaq, un villaggio di pescatori e cacciatori in Groenlandia. Il suo intento è di fare un lavoro fotografico documentario sulla comunità, ma sente subito il disagio di essere percepito come un’estraneo, un turista nella vita degli altri, e le immagini che possono nascere da questo tipo di relazione non lo interessano. Nel villaggio conosce Sabine, una giovane donna Inuit di 19 anni, di cui si innamora. Jacob e Sabine hanno una relazione molto intensa, come intensa è la vita a Tineteqilaaq, dove si pesca e si va a caccia di foche e orsi polari. Jacob si lascia coinvolgere totalmente da questa esistenza, diventando un abile pescatore e cacciatore, e mettendo via la macchina fotografica. Quando dopo sei mesi scatta la prima immagine, è diventato uno della comunità.
È come se i sei mesi di inattività fotografica abbiano avuto una funzione di gestazione creativa inconscia, al cui termine viene sancita la nascita di quella che sarà la sua tecnica e filosofia fotografica. Quella “prima” fotografia di Jacob Aue Sobol nasce dall’urgenza di conservare un ricordo, ed è fatta con una piccola macchina point and shoot: Sabine è felice per il battesimo del figlio della sorella, per l’occasione si è messa un abito a pois, i tacchi e il rossetto, e danzando intorno al tavolo e le sedie di casa alza lo gonna mostrando le mutandine e i collant smagliati. E questo è il momento che Jacob sente il bisogno di fermare, di ricordare.
Da quella prima foto tutto il lavoro di Aue Sobol può definirsi un diario intimo documentario. Resterà con Sabine nel villaggio per tre anni, e il frutto fotografico di questa relazione diventa un libro, Sabine, nominato nel 2005 dal Deutsche Börse Photography Prize. Dopo Tineteqilaaq, Aue Sobol andrà in Guatemala per documentare la vita di una famiglia indigena, un lavoro che gli varrà il primo premio nella categoria Daily Life Stories al World Press Photo del 2006. Sarà poi la volta di Tokyo, dove vivrà per un anno e mezzo e da cui nasce il libro I, Tokyo, premiato dal Leica European Publishers Award del 2008.
Il tratto stilistico e narrativo di Jacob si inserisce nella tradizione della scuola di fotografia nordica nata con Christer Stromholm e proseguita con Anders Petersen. I tre fotografi non condividono solo la stessa passione per un bianco e nero esasperato, ma anche l’attrazione verso la vita ai margini – che siano margini sociali, geografici o mentali, – e la capacità di entrare in relazione con le situazioni che documentano. È Aue Sobol stesso a parlarmi di come sia stato influenzato nella sua crescita artistica da un corso di otto mesi che ha frequentato alla scuola di fotografia Fatamorgana di Copenhagen che a sua volta si ispira agli insegnamenti della famosa scuola di Stoccolma di Christer Stromholm di cui lo stesso Petersen è stato allievo.
Gli insegnamenti di Stromholm cercano di introdurti ad un approccio personale e intimo alla fotografia, “it is not only about photographing some event or something happening or other people, but it’s about meeting other people and photographing that meeting and what grows from that encounter. When I went to school I was exploring different ways of expressing myself with photography and then in Greenland, when I fell in love with Sabine, it started taking a shape with this small pocket camera and the more kind of irrational approach to taking pictures. I could see on my contact sheets how it changed because before, when I was photographing in a more traditional documentary way, you would see that I would photograph some episode from many different angles to explore the scenario, but later when I started using the small camera and photographing Sabine, it was much more random and unpredictable what was on the contact sheets because then there would be one of her in the shower and then one picture when I was out hunting and a boy jumping from the roof or something, it was unplanned and unpredictable. (…) what they were teaching was not only to express yourself but also your relation to the people you photographed and to the world in general, your surroundings. It was not about looking at the world but about being a part of it, more about experiencing things than to look at them, so that you would never feel like a voyeur or an outsider, but somebody who was taking part in life and was photographing that.”
Jacob prosegue dicendomi che fotografa quando sente una connessione con l’oggetto della sua immagine, lo stimolo non parte dal cervello ma più dallo stomaco, è attratto da ciò che gli provoca emozione, e cerca per quanto possibile di bloccare il pensiero razionale lasciando che sia l’inconscio a provvedere alla composizione. Gli chiedo cosa debba avere a sua parere una foto per essere considerata bella, e mi risponde che un’immagine non deve dire tutto, non deve spiegare esattamente cosa mostra o come reagire a ciò che mostra ma deve poter essere interpretata attraverso l’immaginazione e le emozioni di chi la legge. Aue Sobol pensa che quanto più un’immagine è specifica da un punto di vista informativo, tanto meno spazio per un’interpretazione personale è lasciato allo spettatore, privandolo così della possibilità di utilizzare la fotografia come uno specchio per scoprire e sentire se stesso.