Posted by on 18 settembre 2014

 
 
 

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Intervista a Peter Greenaway di Alessia Glaviano per Vogue Italia.

Ho conosciuto e intervistato Peter Greenaway a Lucca, durante il Photolux Festival, in cui l’artista presentava l’installazione The Towers/Lucca hubris nella Chiesa di San Franceschetto.

Greenaway, britannico classe 1942, è un regista, pittore e sceneggiatore – ma in realtà ognuna di queste definizioni risulta troppo limitante per descrivere davvero il suo lavoro: mi piace pensare a Greenaway come a un intellettuale geniale ed eccentrico che indaga le potenzialità comunicative dell’immagine. 

Peter Greenaway nella sua lunga carriera ha prodotto 12 film (tra cui capolavori come I misteri del giardino di Compton House (1982), Lo zoo di Venere (1985), Il ventre dell’architetto (1987), Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (1989)) e circa 50 corti cinematografici e documentari, ha ricevuto innumerevoli premi, le sue pellicole sono state regolarmente candidate ai Festival di Cannes, Venezia e Berlino, ha prodotto installazioni e mostre (esposte dal Palazzo Fortuny di Venezia al Louvre di Parigi), ha pubblicato diversi libri e collaborato con compositori del calibro di Michael Nyman, Philip Glass e David Lang.

Ad attrarre Greenaway da ragazzo è la pittura, anche non la trova soddisfacente perché, mi racconta, il suo desiderio era di fare dei quadri che avessero la colonna sonora:  “which I suppose could be a definition of cinema”. E mai definizione potrebbe essere più appropriata per i film di Greenaway: ogni inquadratura nelle pellicole dell’artista è studiata a livello compositivo fino al più piccolo dettaglio, un cinema che è arte figurativa, i cui riferimenti sono da ricercare nella pittura barocca, nel manierismo e nell’iconografia.

Peter Greenaway ha rivoluzionato la cinematografia sganciandosi dalla necessità di raccontare una storia. Greenaway ripudia infatti la trama e lascia che a guidare la sequenzialità dei suoi film sia un sistema di segni, rappresentato di volta in volta da numeri, colori, o lettere dell’alfabeto: anche la tipologia del filo conduttore nella sua cinematografia richiama alla funzione di indice propria dell’immagine.

Per l’artista il fatto che la nostra cultura sia così ancorata alla necessità di raccontare storie (e quindi al linguaggio scritto), rappresenta un enorme limite, forse una delle principali ragioni per cui esiste un così grave “analfabetismo” visuale: “Most people are visually illiterate. Most people don’t understand images: they don’t understand how to interpret them or how to manufacture them.”

Durante tutta l’intervista Greenaway insiste su questo aspetto, su come sia importante educare a vedere, guardare, “We have to change the educational curriculums, and put a lot more emphasis on how important seeing and looking is. […] Just because you’ve got eyes doesn’t mean you can see. You and I across all the language barriers have very carefully learned how to communicate and text – we practice it every day. But how much energy, how much interest, how much intelligence, comparative to our ability to handle text, do people spend looking and seeing, really looking and seeing? And I’m sorry, you know, culture is elitist, culture has to be elitist, it’s about seeing and knowing and about knowledge. “

Per Greenaway il cinema in generale avrebbe potuto fare molto per l’educazione visiva  se solo avesse avuto il coraggio di slegarsi dalla narrativa diventando autonomo, sperimentando di più, accogliendo riferimenti visuali colti. Per quanto riguarda il suo contributo all’alfabetismo visivo mi dice “Everything I try to do wants to be able to push communication through the notion of the visual image.”

E sicuramente il cinema di Greenaway ha fatto molto per un ampliamento della cultura visiva. Forse proprio per il fatto di non essere abituati a questo genere di comunicazione, guardando i suoi film si entra come in uno stato di trance in cui a prevalere è l’impatto visivo: ci si immerge totalmente nelle immagini e nel simbolismo, in una catena di associazioni soggettive libere dove le mediazioni intellettuali e razionali possono solo essere una conseguenza inconscia.

Oltre a liberarsi della trama, Greenaway vuole superare anche il modulo della cornice, che rappresenta per lui un altro grosso limite entro cui costringiamo tutto: le foto, il cinema, l’immagine in generale. Greenaway descrive la cornice come una convenzione, un artificio  “you don’t see me through a frame, I don’t see you through a frame, it’s a convention”: così l’artista sperimenta con tutti i formati possibili e l’utilizzo simultaneo di diversi frame per liberare l’immagine.

Greenaway vede la rivoluzione digitale e i nuovi media come una grande opportunità: è entusiasta di come i social e youtube abbiano eliminato ogni sorta di intermediazione permettendo una comunicazione diretta con il pubblico. La facilità con cui si possono produrre film, l’immediatezza con cui si possono condividere in ogni parte del mondo e la multimedialità sono tutti aspetti della contemporaneità che vanno nella direzione di una maggiore libertà, del superamento dei limiti e delle convenzioni legate all’utilizzo delle immagini in movimento. “I can make an opera but I can turn it into a book, I can turn the book into a website, I can turn the book back into a film again, and then I can take the film into a theatre and create live performances, and I think this malleability, this ability to juggle with all the media is one of the most important characteristics that we now have. I always argue that Casablanca is extremely boring because everytime you see it it’s the same, now I can make you a film on a Monday, it can be different on a Tuesday, it can be different on a Wednesday, so the curious way, rather like television, we can now make cinema to be a present tense medium, instead of a past tense medium.”

DI ALESSIA GLAVIA– See more at: http://www.vogue.it/people-are-talking-about/focus-on/2014/04/peter-greenaway#sthash.rCTYpxsp.dpuf

 

 

 

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