di ALESSIA GLAVIANO – VOGUE ITALIA
Joel Meyerowitz, classe 1938, nato e cresciuto nel Bronx di New York, è una leggenda vivente della fotografia. Pioniere nell’uso del colore negli anni ’60, nella sua lunga carriera fotografica ha spaziato – con un’eleganza difficilmente eguagliabile – da una frenetica street photography ai grandi formati meditativi, fino ad arrivare allo still life. Ho conosciuto Meyerowitz in occasione di una sua retrospettiva a Cortona durante il Festival On The Move, siamo rimasti in contatto e l’ho poi rivisto e intervistato a Milano, dove Leica aveva organizzato una sua mostra.
Meyerowitz è gentile, educato, parla a bassa voce e la sua figura longilinea, i tratti del viso, la sua gestualità, hanno un non so che di ieratico. Alle mie domande risponde con profonde riflessioni, il suo è un approccio filosofico alla fotografia e attraverso di essa alla vita: “Everything I know about living, has come to me through photography“.
Mi spiega che la macchina fotografica è sempre stata il suo “bastone da rabdomante”, segnalandogli cosa valesse la pena guardare, su cosa soffermarsi. “I feel so fortunate to be curled up in the mystery of a machine that has being a portal so that I wasn’t blind, I was just looking at the world because this machine says ‘Hey Joe! Look at this’ “, ed è così poetico pensare alla macchina fotografica come a un portale, una chiave di accesso al mondo e alle parti più intime di sè.
Nel 1962, Meyerowitz ha 24 anni, e si guadagna da vivere assistendo un art director a New York e il suo capo assume l’immenso Robert Frank per le immagini del libro a cui Joel sta lavorando, mandandolo sul set. Fino ad allora Meyerowitz pensava che la fotografia fosse statica “Frank was moving all the time and I couldn’t believe that I was watching him move and take pictures, and I thought photography was ‘Hold that pose… Turn your head’ ”. Mi racconta che appena lasciato il set vede il mondo in un’altra prospettiva, ogni gesto, ogni interazione che osserva per strada assumono un significato nuovo. Meyerowitz è come stregato, torna in agenzia e si licenzia: deve diventare un fotografo.
Comincia così il percorso di Meyerowitz, che inizialmente si concentra sulla ricerca del momento decisivo di Henry Cartier-Bresson: “right from the beginning I was looking for the poetics of ordinary life”; indimenticabili gli scatti di street photography di questo periodo. La sua compagna sarà presto e per sempre Leica, “I saw that the Leica was in the hands of Robert Frank and Garry Winogrand and Lee Friedlander and I thought ‘I have to see what this camera is like’ and I went and I borrowed one for a day and I thought ‘ Wow this is, this is like, this just is a veil, you pass this veil in front of you and it sucks up the images but its invisible in some way, it becomes an extension of your hand”.
Meyerowitz mi racconta che quando è per strada con la 35mm si sente come un musicista di Jazz, una fisicalità che a un certo punto del suo percorso ha deciso di abbandonare perché “Over time, if you don’t grow you die”. A ogni strumento è legata una parabola di apprendimento per cui si cresce fino a quando non si possiede completamente la tecnica, per poi raggiungere un punto in cui la si padroneggia talmente tanto che il mezzo smette di essere rivelatore: è il momento in cui i grandi hanno il coraggio di rimettersi in gioco, cambiare, uscire dalla “comfort zone”. E così ha fatto Joel, passando a macchine di grande formato.
Con l’utilizzo dei grandi formati Meyerowitz entra in una nuova fase di osservazione, un fase meditativa fatta di lentezza, pause, respiri e silenzi: Joel non è più alla ricerca del momento decisivo. È come se le dinamiche del grande formato aprissero un varco nel tempo e nello spazio, permettendo a Meyerowitz di fondersi in essi. Joel mi racconta che per 30 anni ha passato l’estate a Cape Cod: aveva una casa di legno sul mare, a 20 metri dall’acqua, da cui contemplava la linea dell’orizzonte che divide il mare dal cielo. Osservando il panorama si chiese cosa potrebbe accadere fotografando la semplicità di questi elementi in relazione fra loro con una macchina fotografica di grande formato in grado di registrare ogni piccolo dettaglio: che aspetto ha il vuoto? Lo si può fotografare? E così si mette a fotografare la stessa scena in diversi giorni e diverse stagioni per anni, e la macchina riempie il vuoto restituendo ogni piccolo cambiamento: la qualità della luce, l’umidità, i colori… È come se Meyerowitz e la sua macchina avessero scritto una lunga poesia a quattro mani sul senso della vita. Tutto cambia, niente resta uguale, e “like the seasons I was moving along at the same time. As an artist you can’t separate yourself from the fact that you are living and dying, you need to integrate this larger observations so that the work has some embrace of your life, a recognition that time is passing, not just time in the shutter, but time – your whole life is passing, and by acknowledging this and living in the moment you actually experience the fullness of what you photographing”.
Meyerowitz mi spiega che è stata proprio la semplicità della situazione fotografata che, togliendo ogni rumore di fondo e ogni distrazione, gli ha permesso di accedere e visualizzare la complessità dei suoi stati d’animo. Gli chiedo cosa debba avere una fotografia per essere considerata eccellente, e Meyerowitz mi risponde che l’arte per essere considerata tale deve possedere un “coefficiente” trasformativo: è lo scarto dalla realtà alla tua visione di essa che porta con sé l’artisticità, senza trasformazione la fotografia sarebbe un semplice foglio di carta.
Prima di arrivare all’ultima parte dell’intervista in cui Joel racconta la terza fase della sua evoluzione artistica, iniziata da poco, abbiamo parlato dell’11 di settembre, evento da cui è stato profondamente segnato e al quale ha reagito nell’unico modo per lui possibile: fotografando. Il lavoro di Meyerowitz sul disastro del 11 di settembre è incredibile, un archivio di oltre 8.000 immagini scattate in otto mesi giorno dopo giorno, immagini che documentano la magnitudine della distruzione e l’eroismo della risposta ad essa da parte di vigili del fuoco, ingeneri, polizia, e tutti coloro che hanno dovuto affrontare recuperi e rimozioni nell’area di ground zero. Meyerowitz, convinto che senza fotografia non ci può essere Storia, ha lottato rischiando in prima persona e agendo ai limiti della legalità per poter scattare queste immagini a ground zero, violando l’espresso divieto del sindaco della città che aveva dichiarato l’area “off limits” ai fotografi. Dell’11 settembre dice: “it had an impact on my life in profound ways, personal, photographic and spiritual. I saw all this men and women working so hard to find the remains of every person who died and it moved me so much that I thought to myself ‘from now on I would like to try to devote sometime every year to doing work that is socially useful rather than just personal work’”.
Chiedo a Meyerowitz se c’è un immagine in particolare nella mostra di cui vorrebbe parlarmi. Joel mi conduce davanti a una fotografia dello studio di Cezanne in Provenza, alla cui sinistra ne è appesa un’altra composta da tanti still life a grandezza naturale raffigurante gli oggetti che compaiono nella mensola del suddetto studio. La macchina fotografica è per Joel il principale strumento di analisi della vita e di se stesso, e la volontà di progredire e sperimentare mettendosi sempre alla prova con qualcosa di nuovo, fuori dalla comfort zone è il letimotiv del suo percorso. E così, anche in queste ultime immagini si ravvisa la metodologia meditativa “learning by doing”: Joel stesso mi dice che ancora non ha capito bene il nocciolo del significato di quello che sta facendo, ma segue il suo istinto. In una visita allo studio di Cezanne due anni fa, Meyerowitz resta colpito dal colore dei muri, uno strano grigio incredibilmente neutro. Nello studio c’è anche una grande finestra da cui entra la luce del nord. Cezanne ha vissuto e lavorato in questo spazio per oltre 30 anni, e la visione di quel muro grigio provoca a Joel un’intuizione: ecco come Cezanne è diventato il padre della pittura moderna!
Prima di Cezanne la pittura era molto legata alla ricreazione dell’illusione prospettica ma, osserva Meyerowitz, nei dipinti di Cezanne la prospettiva scompare. Ad esempio possiamo vedere una mela, e il muro sarà rappresentato come subito attaccato ad essa, reso semplicemente con un altro colore. Questa tecnica, rivoluzionaria per l’epoca, è il frutto per Meyerowitz di quello che Cezanne aveva sotto i suoi occhi tutti i giorni: il grigio assorbe, non riflette la luce, le ombre scompaiono. Meyerowitz ottiene il permesso di prelevare ad uno ad uno gli oggetti della mensola nello studio di Cezanne e fotografarli davanti al muro grigio. L’idea è di stamparli a grandezza naturale e comporre una griglia. Ed ecco che torna un tema caro a Meyerowtiz, cioè la possibilità di entrare nella fotografia: gli oggetti, stampati a grandezza naturale, sembrano a portata di mano.
Parliamo di come nella storia dell’arte le stagioni, le nature morte, i teschi, che rappresentano il simbolo massimo della caducità di tutte le cose, siano spesso temi ricorrenti nelle opere degli artisti che, avvicinandosi alla vecchiaia, si interrogano sulla morte e scoprono il fine e quindi il senso ultimo della vita: “when artists become 70 or 80, they meditate on age and a sort of certain energy or the fact that they may only see a few more spring times. How many more spring times do I have left? It’s a question, I already had 75 of them. “Un percorso straordinario quello di Meyerowitz che noi abbiamo la fortuna di poter ripercorrere grazie alle sue fotografie, dalla frenesia giovanile alla meditazione introspettiva sul vuoto e l’immensità dell’esistenza fino al senso ultimo della vita.