ANDERS PETERSEN “Café Lehmitz”
“Amo la fotografia per il fermo immagine del sentire, il fascino del bianco e nero perché è il colore del ricordo, realtà che esce dal tempo per fissarsi in una malinconia. Non ho meriti particolari se non quello di saper guardare, seppur per un nano secondo, attraverso l’occhio del fotografo”.
“Questa è la fotografia che amo di più, dissacrante, cruda come la vita, il fermo immagine della realtà senza orpelli né poesia”.
La fotografia di Anders Petersen (nato a Stoccolma, Svezia nel 1944) è ossessionata dall’essere umano, dall’enigma che lo accompagna e dalla solitudine e la profondità dei sentimenti. Immagini avvolte da una sorta di tristezza poetica, dove la morte appare sempre presente, pronta a sbucare e farsi largo per prendere il sopravvento della scena. Nel 1968, Anders Petersen assetato entrò per caso al Café Lehmitz: ordinò una birra, appoggiò la macchina fotografica su un tavolo e andò in bagno. Di ritorno, trovò i clienti del bar intenti a scattarsi fotografie l’un l’altro”
Il Lehmitz Café era ai confini della zona a luci rosse di Amburgo “die sündige Meile” (il miglio peccaminoso). I suoi clienti erano un mix di operai, prostitute, magnaccia, alcolizzati, ladri, omosessuali, nani, travestiti e altri che sedevano ai margini della società ed è proprio all’interno di questo cast di personaggi che Anders Petersen scattò le 88 fotografie in bianco e nero che compongono “Cafe Lehmitz” edito da Schirmer Mosel nel 1978.
“Sai Ivano che qui si consuma un mistero: tu, senza saperlo, hai dato un nome ad un fotografo – anche se credo che chiamarlo così sia riduttivo, io lo chiamerei sciamano – di cui vidi i lavori tanti anni fa, una ventina, a Milano. Lo ricordo come fosse ieri perché mi segnò: ero in un grande bookstore ed ” inciampai ” in una collana bellissima, tanti libretti bordeaux, a prezzi contenuti, sulla storia della fotografia. C’ erano diversi autori, i ” soliti “, tipo Atget e Doisneau, e un altro, di cui per anni ho poi provato a ricordare il nome – ” è qualcosa di nordico, come Cristensen … sen … ” ripetevo fra me e me senza azzeccarlo – perché le foto degli sbandati che ritraeva erano di una sincerità disarmante. Guardarle era come avere il coraggio di infilare la testa, tutta intera, nelle fauci del grizzly affamato sperando che non la aprisse come un guscio di noce. Se non si veniva uccisi, il premio era l’ inferno. ” E che razza di premio è l’ inferno ” dirai tu. L’ inferno, per me in quel momento, erano gli anticorpi; in quel preciso istante ho guadagnato l’ immunità alle solite cose. Le immagini in quel libricino, poco adatto ad un lavoro fotografico, erano di prostitute nei sobborghi, clienti ubriachi ed interni squallidi, tutte circostanze estreme in cui le solite cose, quelle che t’ ammazzano di banalità, erano bel lontane. Quell’ autore fu più letale di ebola per la mia anima affamata di casi umani e gente speciale”.
Vanessa Cavenaghi
traduzione testo:
Congratulazioni tesoro
a te e al tuo amante
congratulazioni tesoro
posso aspettarti per anni
congratulazioni tesoro
le campane delle tue nozze mi ronzano nelle orecchie
congratulazioni tesoro
mi hai dato tre sigarette per fumare via le lacrime.
E muoio quando pronunci il suo nome
e ti ho mentito, avrei dovuto baciarti
mentre correvamo sotto la pioggia.
Cosa sono io tesoro?
Un sussurro nelle tue orecchie?
Un pezzo della tua torta?
Cosa sono io tesoro?
Il ragazzo che puoi temere?
O il tuo più grande sbaglio?
Congratulazioni tesoro
a te e al tuo amante
congratulazioni tesoro
ho appena girovagato e mangiato da una lattina
congratulazioni tesoro
sulla mia chitarra c’è un nastro verde
congratulazioni tesoro
c’è una bella regina
seduta non molto lontano da me.
Muoio quando arriva lui
per portarti a casa
sono troppo timido
avrei dovuto baciarti quando eravamo soli.
Cosa sono io tesoro?
Un sussurro nelle tue orecchie?
Un pezzo della tua torta?
Cosa sono io tesoro?
Il ragazzo che puoi temere?
O il tuo più grande sbaglio?
Oh, cosa sono io?Cosa sono io tesoro?
Posso aspettarti per anni..
intervista di Alessia Glaviano
Negli anni ’60 Anders Petersen vedrà una fotografia che cambierà la sua vita: l’immagine di un cimitero a Parigi. Nella foto è inverno, ha nevicato, qualcuno deve aver camminato sulla neve lasciando delle orme poco prima dell’arrivo del fotografo. “It was as though the dead had risen from their graves during the night and strolled around, visiting each other. And the photographer discovered that trough the footsteps This experience made me seriously interested in expressing myself in images.” La fotografia era stata scattata da Christer Stromholm, capostipite di quella che è oggi universalmente riconosciuta come la scuola nordica di fotografia. Stromholm diventerà il maestro di Petersen.
Anders Petersen, svedese, classe 1944, con il suo approccio alla fotografia autentico, graffiante, diretto, ha influenzato generazioni di fotografi. Andersen, e Stromholm prima di lui e Jacob Aue Sobol poi, hanno contribuito a legittimare uno sguardo personale, intimo alla fotografia documentaria, che per entrambi può esprimersi unicamente in un bianco e nero urlato, esasperato.
Ho incontrato Petersen da MiCamera a Milano, in occasione di un suo workshop. Mentre aspetto di intervistarlo sfoglio la sua monografia, di recente pubblicazione (edita da Bokforlaget Max Strom, la stessa che vedete in questo video). Nel libro sono raccolti diversi lavori di Anders, fra cui alcune fra le prime immagini che ha scattato sul finire degli anni ’60 in un caffè di Amburgo, raccolte 1978 in Café Lehmitz, un libro considerato oggi un caposaldo della storia della fotografia europea.
Petersen è un appassionato bibliofilo, considera il libro lo strumento di elezione per presentare il suo lavoro fotografico e di libri ne ha pubblicati oltre 30 – quando arrivo da Micamera è in riunione con Flavio Scollo di Punctum Press per finalizzare gli ultimi dettagli di “Rome”, una raccolta delle immagini scattate a Roma, durante tre viaggi, in un arco di tempo di 30 anni: nel 1984, nel 2005 e nel 2012.
“Rome” è stato ormai stampato, e per darvi un’idea della cura che Petersen riserva alla produzione dei suoi libri, riporto qui il testo di una mail che ho ricevuto da Scollo.
“Ciao Alessia, Ho visto su Instagram che hai ricevuto la copia del libro Anders Petersen, spero ti sia piaciuto. Stamparlo è stato difficilissimo: Anders voleva fortemente un tipo di carta usomano e per permettere che i neri rimanessero così intensi anche su quel tipo di carta ci siamo dovuti rivolgere ad una delle pochissime tipografie in Italia che praticano la stampa con tecnica a UV. Il risultato però è secondo noi effettivamente bellissimo. La carta è consistente al tatto ed i neri intensi come li volevamo. Insomma, noi ne siamo grandemente soddisfatti.”
Petersen mi racconta che gli insegnamenti di Stromholm erano volti più che sulla tecnica fotografica al modo di relazionarsi con il mondo, a come entrare in contatto con la gente e con se stessi e alla necessità, come fotografo che entra nella vita degli altri, di prendersi la responsabilità di ogni propria azione. Il fotografo non può e non deve essere come un ladro “stealing situations, faces and body languages from people, but [you need] also to come back and try to deliver and give back, you know, what you have done. So they could see. And this is also a way to develop your pictures and to develop your photography and your understanding and your knowledge about yourself and other people, whatever kind of situation you’re entering.”
Nel suo percorso Petersen si è confrontato con diverse realtà, dai curiosi frequentatori notturni del caffè di Amburgo a quelli di un parco giochi, ai detenuti, i malati psichiatrici. Il tratto che accomuna i soggetti prescelti da Petersen non è, come in molti hanno scritto, la caratteristica di trovarsi ai margini della società, quanto quella di un’umanità che ha perso la maschera, che, per diverse motivazioni, vive in modo autentico, vicino alla propria essenza, spesso fuori dalle regole imposte dalla società. “The beauty… It’s not on the surface. The beauty is…when it is kind of…believable. And the surface is not important at all. What I am looking for is a kind of inner beauty, or a kind of inner reality – but is not so obvious perhaps. This kind of inner reality is connecting us. You can find it everywhere. And it’s not about being rich or poor, it is about something else, more deep perhaps. (…) You can find these people just in front of you if you put the right glasses on: they are everywhere. And they are on every social level. They are not about being rich or poor, or wealthy or not. It’s not about that. It’s about something else…and everyone has this…something else inside the person. I think so.”
Mi viene in mente la famosa frase di Robert Capa “If your photographs aren’t good enough, you’re not close enough”: sicuramente la prossimità di cui parla Capa non è solo fisica, ma riguarda la capacità di entrare in relazione, prima di tutto, con se stessi. A questo proposito, ad esempio, Petersen mi dice che “My photography is not brain photography. It’s more about what I feel, my intuitions, my emotions”.
Insieme alla capacità di essere in contatto con la propria essenza, è fondamentale quella di entrare in relazione con i propri soggetti, il grado di intimità che si riesce ad instaurare, la capacità anche di perdersi un po’ – ma non troppo. Come mi dice Petersen: bisogna sempre mantenere una certa lucidità, altrimenti si rischia di commettere gravi errori, e tradire cosi la fiducia dei nostri soggetti. “When I look back I missed so much and I lost myself into situations because I was not aware. I was not a photographer really (…) I lost myself and I came out from the situation with nothing! It was embarrassing, I came out of that and didn’t find anything, you know, on the films. There’s was nothing. So I learned step by step to avoid entering the situation with both my feet: so I put one foot inside and one foot outside, which means I’m not really controlled but I’m more controlled than I was. ”
Petersen non ha problemi a definire la “realtà” come soggettiva e il gesto fotografico come un processo di profonda conoscenza del sé. Anders rifiuta il concetto dell’oggettività fotografica, non ha paura di entrare – metaforicamente – nelle sue immagini, e mostrarsi. Le sue fotografie vanno oltre l’aspetto descrittivo e documentario, diventando degli ibridi fra il sé, e l’altro da sé. La fotografia quindi come modo di vivere, per cui il processo fotografico diventa uno strumento per la costruzione della propria identità, attraverso il riconoscimento dell’alterità: «conoscere se stesso» è sempre ri-conoscersi attraverso l’altro.
Anche quando gli chiedo cosa pensa del futuro della fotografia, Petersen ritorna sull’importanza che una fotografia riesca a comunicare, non solo la situazione in essa rappresentata, ma anche l’anima di chi l’ha scattata. È questa dualità che, a suo parere, fa sì che un immagine colpisca il cuore di chi la guarda, e diventi eterna, immortale: “when we are talking about photography as a personal approach to life I think it hasn’t developed so much. I think if you look at the history of photography you can see that the pictures that still are affecting people emotionally, making them understand the human beings and traditions and cultures. They have also the profile of the person behind the camera. It’s connected. And if you look at photography this way it’s very interesting to see how they, even if the pictures were taken 150 years ago, they still approach to your heart. And have a meaning for your life today, in 2014. And that’s beautiful. I’m very moved about that. Yes.”