Vapore di Tania Piazza
Le parole mi sono sempre uscite a fatica; a volte, quando ero giovane, sceglievano vie alternative e più facili e si trasformavano in azioni. Altre volte, rimanevano pietrificate e non andavano da nessuna parte.
Da adolescente, il mio corpo era cambiato in fretta. In poco tempo, mi ero ritrovata a dover fare i conti con gli sguardi degli uomini: mi sentivo vulnerabile e impreparata, e spesso piangevo di nascosto, senza mai confidarmi con nessuno. Allora, per difendermi, avevo preso a comportarmi come non ero, in maniera spesso ruvida o prepotente, in contrapposizione con il mio aspetto che portava in sé, mio malgrado, un sapore di dolcezza e di quella sorta di giusta sottomissione che i tempi suggerivano per una donna. Amavo, per esempio, offrire la cena ai maschi. Uscivo la sera e ne facevo una questione di principio, io che lavoravo già da tempo e mi sentivo grande e forte abbastanza da impormi all’arrivo del conto. Mi sembrava fosse giusto così, mi dava la sensazione di essere alla pari e, quindi, meno esposta. Non con tutti mi andava bene; a volte mi toccava discutere, anche in maniera animata. Tiravo in ballo le origini delle mie nonne e delle mie bisnonne, delle lotte che negli anni avevano dovuto compiere per arrivare a essere almeno lontanamente vicine allo status dell’essere maschio. Parlavo di cose vere mescolate a cose inventate, nozioni che mi piaceva farmi girare per la testa e far uscire dalla bocca solo per il gusto di lasciare senza parole chi era con me. A volte, quando capivo che non sarebbe stato facile pagare, approfittavo del momento in cui il lui di turno si alzava per andare ai servizi. Chiamavo il cameriere e gli chiedevo velocemente il conto. La sua faccia era sempre sorpresa, e questo mi infastidiva ancora di più. Allora, stizzita, inventavo delle spiegazioni: gli dicevo che era il compleanno del mio innamorato e che avevo il diritto di fargli un regalo per festeggiarlo. Oppure, raccontavo una storia triste, tipo che era appena morta sua sorella, all’improvviso, e stavo cercando di sollevargli il morale. Cose così. O anche, ancora, che era mia abitudine pagarmi la compagnia, e questa era la mia risposta preferita. Facevo di tutto per provocare, e mi piaceva stare a guardare la reazione degli altri, in silenzio.
Se mio padre avesse saputo ciò che diventavo una volta uscita dalla scia del suo sguardo, avrebbe pianto. Non si sarebbe arrabbiato, no. Avrebbe pianto. E nessuna di noi, in famiglia, avrebbe avuto il coraggio di commentare le sue lacrime. Questo, era uno dei motivi che mi faceva desiderare con così tanto ardore di essere un uomo: provare la libertà, come succedeva a lui, di fare le cose senza temere di incappare nel giudizio altrui. Adesso, so che il giudizio da temere non è quello degli altri, e non mi dispiaccio più dell’essere una donna.
Ancora oggi, amo andare in giro per la strada e sfidare lo sguardo delle persone che incontro. Non è un gioco, è un’esigenza di sopravvivenza. Riesco ad allenare la mia volontà, che a volte è così debole, a essere forte. Ciò che odio, invece, è proprio la sensazione di soccombere. Di non avere parole da far uscire dalla bocca, o meglio, averne molte, ma tutte ingabbiate, che lasciano troppo spazio a quelle degli altri. Esistono vari episodi di quando ero piccola legati a questa sensazione, e sono tutti ben saldi nella mia memoria. Quello che ricordo più nitidamente, a distanza di anni, non sono i particolari, però. Non le persone con cui ero, i luoghi in cui mi trovavo, quello da cui stavo scappando. Ciò che permane, è il mio sentirmi inadeguata. A dare risposte, a compiere azioni, a far succedere cose. Ed è ciò da cui rifuggo oggi. So quello che non voglio essere, e questo mi aiuta. Non so quello che voglio essere, ma non me ne preoccupo più. Sto imparando a essere clemente con me stessa e, quando sono brava, lo sono davvero. Salgo in questo giardino in cima alla collina e cammino fino al mio angolo, ai piedi del grande gelso. Lo considero uno della famiglia, ormai, per la sua aria così accartocciata: mi ricorda la faccia di mio padre, quando si arrendeva alla vita e a ciò che gli succedeva. Si lasciava cadere sulla poltrona del salotto, e con le lacrime agli occhi – il suo pianto mi accompagna ancora – parlava a se stesso e alla vita che lo aveva trafitto, incurante delle nostre orecchie, che, ben aperte, non si perdevano niente. Non toccava a noi rincuorarlo: non lo permetteva né a mia madre, né a me, né alle mie sorelle. Gli bastava parlare con la vita. Poi, si sentiva meglio, e la sua pelle perdeva l’aspetto stropicciato, tornando liscia. Ho iniziato allora, credo, a invidiare quelle sue parole facili, che uscivano come in un vapore, un fiato emesso sonoramente.
Il gelso, in questo giardino, ha preso il posto di mio padre. Non sempre, quando vengo, riesco a parlargli. A volte, mi accontento solo di sedermi vicino a lui; non lo guardo nemmeno. Lo scruto di sottecchi, come facevo da piccola, quando papà stava sulla poltrona, e io mi sentivo di troppo. Non so se le mie sorelle si sentissero inadeguate come me, non gliel’ho mai chiesto: ciò che provavo era talmente forte, da non lasciar spazio a nessun altro.
Nei giorni in cui non gli parlo, mi siedo e attendo. Le sue vecchie radici penetrano la terra avidamente, come quando mio padre mangiava la vita, beffandosi di lei, quando era forte e mi sembrava un cavaliere invincibile, e io volevo essere come lui. La vegetazione qui attorno lo rispetta: nessuno gli si avvicina troppo, nessuno osa togliergli spazio. Solo una piccola pianta fiorita ci prova, attorniandolo da un lato, ma in maniera rispettosa, quasi invisibile; la guardo e vedo me, quando mi avvicinavo alla poltrona in punta di piedi, perché sapevo che non c’entravo nulla con la scena che mi stava davanti, ma avrei dato non so cosa pur di prenderne parte, tuffarmi su di lui e starmene stretta al suo petto, ad aspettare le parole di vapore che sarebbero uscite dalla sua bocca.
Penso che queste radici spesse arrivino molto in profondità; mi piacerebbe scavare, un giorno, e vedere cosa c’è sotto. Se ci ritrovo la nostra casa d’infanzia e le gite al mare; l’amore per la mamma e quello, incommensurabile, per me e le mie sorelle. Forse ci sono spigoli nodosi, lungo queste radici, che si avvitano sempre più alla terra e con essa si seppelliscono ogni giorno di più. Forse, rimarranno ancorate in questo giardino per l’eternità e nessuno potrà mai portarmele via.
Solo le parole volano. Quelle che lui diceva e quelle che io avrei sempre voluto dire. Quelle che mi impegno oggi a non perdere e che, quando ero giovane e arrabbiata, gettavo in faccia agli uomini con i quali uscivo, per sentirmi meno donna e più forte. Quando tornavano al tavolo e si stupivano del fatto che avessi pagato il conto. Si sentivano offesi e a me piaceva quello che provavo. Amavo poter far tutto: essere dura con loro e poter pensare anche di piangere, in qualunque momento avessi voluto farlo, senza che nessuno mi giudicasse. Era quello, che faceva mio padre.
Ci sono momenti in cui, quando vengo qui, ho voglia di parlare. Le prime volte, camminavo fino al gelso e mi stendevo sotto di lui. Guardando in cielo, tra gli spiragli che la sua folta chioma lascia, immaginavo le mie parole come dei vagoni che salivano in alto, lentamente, percorrendo strade che non sapevo esistessero. Tiravo fuori timidamente ciò che non ho mai detto, le mie paure, le mie inadeguatezze. Speravo che lui mi avrebbe ascoltato, attraverso le foglie dell’albero. Ma la sua presenza incombeva, e non mi lasciava libertà, quella di cui ho un potente desiderio da sempre. Me lo sentivo addosso e la mia gola si faceva sempre più arsa. C’è voluto un po’ prima che capissi che l’immagine di mio padre sulla poltrona mi avrebbe aiutato ancora. Ho ricomposto nella mia memoria la sensazione che doveva provare lui, cercando di ripescare tutto quello che mi tornava in mente: la posizione delle sue spalle che se ne stavano sempre un po’ staccate dalla seduta, quasi a voler essere pronto ad alzarsi e partire in qualunque momento avesse ritenuto opportuno farlo. Il suo darci le spalle, come se non esistessimo, mentre io, da dietro lo stipite, lo osservavo ascoltando ciò che diceva, sperando che prima o poi mi avrebbe chiamato a sé. Il suo sguardo rivolto in avanti, fisso sugli occhi della vita a cui si stava rivolgendo.
Non mi stendo più a terra, ora. Mi siedo come lui, dando le spalle al mio gelso accartocciato. Porto con me una piccola, deliziosa gabbia bianca, che ho scovato in un negozio di antichità; quando l’ho vista, ho pensato subito a chi, probabilmente, l’aveva abitata per anni. Alle pene e ai sogni che, nel tempo, racchiusi dentro a quel piccolo spazio, si erano liberati nell’aria. Esattamente come ciò che abita in me.
Succede proprio questo, nei giorni in cui ho voglia di parlare con lui. Mi siedo senza appoggiarmi al tronco. I miei occhi guardano avanti, verso un luogo che ancora non conosco. Do le spalle alla pianta fiorita, perché voglio sforzarmi di essere dura e ignorarla. Come se non avesse voce. O desideri. Avvicino la bocca alla porticina della gabbia e, una volta spalancata, le mie parole non sono più vagoni lenti. Non sembrano più maldestre o insicure. Sono splendide. Voluminose ed eleganti. Compiono grandi distanze in poco tempo, trasformandosi in quel vapore bianco e lieve che ho sempre visto sopra alla vecchia poltrona: l’afflato di papà. Allora, quando la nuvola sale e mi copre la vista, quando le parole accumulate sono troppe, ho imparato a non smettere. Soffio forte, invece, con tutta l’aria che rimane nei miei polmoni. Soffio fino a quando torno a vedere chiaro in faccia il luogo che non conosco. E so per certo che, come succedeva alle sue, anche le mie parole ora volano libere. Nell’aria, in alto, verso il cielo; qualcuna ricade anche a terra e si mescola con le radici del gelso, e io me le immagino a tenersi per mano.
(racconto ispirato al progetto fotografico 21 grammi , di Paola Mischiatti e Ivano Mercanzin)