Vorrei arrivare dall’alto, una volta. Calarmi dal cielo, come scendono gli uccelli. Ti danno l’impressione di toccare il suolo, quello stesso suolo sul quale cammini, e poi d’un tratto si allontanano in corsa, senza neppure sfiorarlo. E tornano lassù.
Vorrei arrivare dall’alto, cambiare la prospettiva del mio sguardo. Vedere le cose più piccole, per riportarle a una dimensione sopportabile.
La lontananza, poi, mi aiuterebbe a tenere il mio cuore distante; se i tuoi occhi non mettono a fuoco alla perfezione, allora lui ci si tuffa con più imprecisione. E magari, a volte, hai la fortuna che si sbagli, e atterri su qualcos’altro. Salvandoti.
Vorrei guardare in giù e sentirmi leggero, spogliato del peso che mi attacca a questa terra, della gravità che mi costringe a camminare con un punto fermo davanti al naso. Vorrei rompere i recinti, correre fuori, invertire la rotta, cambiare binario.
Anche le ombre posate sull’asfalto sarebbero diverse, strade segnate a matita, come improbabili suggerimenti. Vorrei arrivare dall’alto, una volta. E sorprendermi. Inventare nuovi linguaggi. Sentire il vento che mi trapassa. Farmi bucare dall’aria. Mettermi in linea con i rami degli alberi e unire puntini immaginati. E poi, una volta tornato a terra, avere piedi nuovi con cui camminare.