Lei diceva che questa città è malinconica per sua natura. Che nelle mattine d’inverno ha un particolare odore di stazione e di cenere e che il fiume perdendosi in lontananza, svapora in un orizzonte di nebbie violacee,che la facevano pensare a un tramonto, anche se era mezzogiorno.
Ma ovunque ci si trovi, giuro, si sente un fischio di treni, diceva così.
E adesso che ci penso,questa malinconica città, rassomiglia a lei.
Era arrivata qui a Torino un giorno d’inverno, in cui pioveva con il sole e mi aveva chiesto dove si trovasse l’hotel Roma.
Le avevo chiesto a cosa le servisse, pensando a un incontro con uno
dei suoi amanti.
Voglio andare a vedere l’ultimo posto in cui è stato Pavese, prima di morire. Aveva detto.
Aveva posato la sua piccola valigia in terra, guardandomi poi con una luce fanciullesca che le lampeggiava nello sguardo liquido, e aveva atteso
frenetica sulle gambe magre, non aveva nessuna intenzione di riposarsi ne di togliersi la giacca, voleva andarci subito.
Così quel primo pomeriggio ci siamo incamminati per le strade gelate, sotto una pioggia fina, mentre le macchine ci spruzzavano addosso
l’acqua sudicia delle pozzanghere.
Lei non si scostava neanche, sembrava non accorgersene. Camminava davanti a me, a passo lungo, testardo e solitario, con il naso per aria, come a raccogliere idee nel vento.
Quando siamo arrivati davanti all’hotel Roma, lei mi aveva superato veloce, si era appoggiata al cancello del parco di fronte e si era messa a guardare fisso il palazzo, con le mani giunte appoggiate alle labbra. Ogni tanto annuiva, non so a cosa. La pioggia aveva smesso, e il vento le sballottava le punte biondastre dei ricci schiacciate sotto il cappello.
Era rimasta li per più di un’ora, senza dire una mezza parola, ed io la guardavo rapito e sgomento, intabarrato nella mia giacca a vento,morente di freddo, senza nemmeno pensare di interrompere il flusso dei suoi pensieri.
Come è morto Pavese? Mi sono permesso di chiederle mentre tornavamo verso casa.
Si è suicidato. Ha detto dopo un po’.
Quanti anni aveva?
Quarantadue.
Insomma, giovane.
No era vecchio.
Beh mica tanto.
Non sognava più, era vecchio. Aveva troncato così il discorso, come parlando di uno che conoscesse bene.
Lei aveva un modo strano di passare le sue giornate, a volte erano come quelle di un adolescente, piene di tempo e cose da fare, entrava e usciva lasciando la sua bici
appoggiata alla porta, se ne veniva dal mercato del Baloon con buste piene di cianfrusaglie, vecchi capelli, caffettiere degli anni 50, scarpe, pantaloni di velluto a coste colorati, mandorle, torroni, frutti esotici. Un giorno portò a casa una
macchina fotografica dei primi del novecento.
E invece altre volte se ne stava giorni interi senza mai uscire
dalla sua stanza, oppure scriveva per ore seduta al tavolo della cucina, circondata da tabacco e caffè.
Riempiva fogli e fogli sparsi, con una calligrafia rabbiosa e
pesante, un’ansia febbrile, la
vedevo sudare, poi fermarsi a rileggere e cancellare, e poi di nuovo riprendere. Buttava nella pattumiera sotto al lavandino, la maggior parte di quello che scriveva.
Robaccia, diceva.
Se le offrivo una birra, diceva che non poteva bere, ma poi la vedevo portarsi su a casa delle bottiglie di Vodka e Jack Daniel’s che teneva nella sua camera.
Delle volte usciva, e tornava il giorno dopo, nessuno sapeva dove fosse stata. Nemmeno glielo chiedevo. Avevo timore a chiederle le cose, perché pareva infastidirsi con troppe domande.
Mangiava poco, e di solito lo faceva in piedi, poggiata di schiena al lavello, lentissimamente, e non dormiva mai. Durante la notte attraverso la porta a vetri della sua stanza vedevo la luce sempre accesa, e a volte mi fermavo a scorgere la sua ombra magra muoversi
nello spazio.
Quando salutava gente sconosciuta, aveva un modo cauto e prudente di dare la mano, concedeva le sue piccole dita un momento e subito dopo,
le ritraeva.
Le sue mani erano sempre fredde e sempre in tasca.
E aveva anche un modo schivo e parsimonioso di afferrare il tabacco, di metterlo nella cartina, ne leccava poi lenta l’estremità più volte con la punta della lingua, con una tale intensità che dovevo distogliere lo sguardo.
Quello che mi faceva uscire matto di lei, erano i suoi capelli, ricci, lunghi, con le punte dorate e la radice più scura. Mi piaceva il modo in cui la sera, prima di andare a dormire, se li raccoglieva sulla testa, lo faceva pianissimo,accarezzandoli dolcemente.
Ho desiderato spesso essere quei capelli, e fino ad ora non avevo mai desiderato diventare i capelli di qualcuno. Era strano. Lei era strana.
Non era propriamente bellezza, era piuttosto un’ energia che aveva tutt’attorno e che faceva si che ogni uomo, di qualunque età, si voltasse a guardarla quando passava per le strade, mentre camminava con la testa affondata in un libro e non si accorgeva assolutamente delle tempeste di sguardi che si scatenavano attorno a lei.
Delle volte aveva l’aria terribilmente triste, soprattutto al mattino, poco dopo il risveglio.
Si trascinava in cucina, a piedi nudi, con una lunga maglietta nera che non arrivava a coprirle le ginocchia appuntite, i capelli
aggrovigliati sulle spalle,le borse sotto gli occhi che a me parevano sexy, e metteva su il caffè.
Cos’hai? Avevo chiesto un mattino
Non so, malinconia.
Perché?
E’ questo il problema dei malinconici, non sanno perché.
Dai, cos’hai?
Tra le tante cose, mi sento male a pensare che la persona più cliccata su Internet sia Paris Hilton, per dire.
Ho riso.
Quel giorno, nel freddo della cucina, mi aveva preso una mano e se l’era appoggiava sul petto, all’altezza del cuore.
Lo senti? Mi aveva chiesto.
Avevo annuito.
Davvero?
Si.
Meno male, io no.
Poi mi aveva baciato, ed io avevo sentito la sua malinconia nuotarmi in bocca,era amara, ma mi piaceva. Avevamo fatto l’amore sul tavolo,come molte altre volte, senza dirci una parola. Lei non voleva che nel
mentre le parlassi o la baciassi.
Sapevo di essere troppo giovane per lei,non faceva altro che ripetermelo, quanto io fossi giovane, quanta vita c’era davanti a me.
Anche tu hai tutta la vita davanti, le avevo detto una sera.
Ma non so che farmene. Aveva detto lei, mi stava cucinando un uovo al sugo.
Non aveva nemmeno 30 anni, ma era come se fosse entrata e uscita da un infinito numero di vite e ora si sentisse terribilmente stanca.
Dei suoi uomini non mi parlava mai. Ed io ero li, a fremere e a
chiedere il meno possibile, per non turbarla. Perché sapevo che gli uomini la turbavano. Ma qualche volta osavo.
E lei sospirava, mi sorrideva.
Cosa vuoi che dica, Giorgio? Diceva, basta guardarmi. E infatti io la guardavo,
e più la guardavo, più non capivo.
Non provò mai davvero a spiegarmi.
Ma io provai davvero a capire, questo posso dirlo.
Non ce n’erano tanti, anzi. Ma ce n’era uno, uno in particolare, che partiva e tornava, andava e veniva, e lei lo aspettava anche se era una che non aveva assolutamente l’aria di essere tra quelle che aspetta alcun che, ma con lui era tutto diverso.
Io lo capivo, quando si erano visti, o quando stavano per vedersi,perché lei cambiava, diventava elettrica, e le tornava nello sguardo la speranza di un adolescente. C’era una fessura in lei, in quei giorni d’attesa in cui la luce riusciva ad entrare.
E poi quando tutto tra loro finiva, si richiudeva, passava giorni interi senza dire una parola. Non è che fosse triste, solo voleva starsene per conto suo, con i suoi amici scrittori morti da cinquant’anni, perché sembravano, diceva, essere gli unici in grado di
capire.
Non riuscivo a comprendere come lui potesse abbandonarla così da un giorno all’altro.
Una volta le chiesi a proposito di questa storia e lei mi disse: è una cosa senza
importanza.
Che vuol dire?
Ciò che ho detto. È solo quel che è.
Lo ami?
Non lo so.
Si, si che lo sai.
L’ho amato. Lo amo. Ma non lo voglio più.
A volte mi svegliavo sudato nel cuore della notte,
domandandomi semmai
sperasse in qualche cosa. Ero preoccupato per lei, temevo per la sua vita, mi ricordavo sempre di quando mi aveva parlato di Pavese, del fatto che fosse già vecchio perché non riusciva più a sognare. Anche
lei mi sembrava così.
Ascoltava spesso Modugno, una canzone in dialetto siciliano che
parlava della morte di un pesce spada, una musica e un testo
tristissimo, straziante.
Era finito l’inverno, una primavera incerta si stava affacciando.
Entrai nella sua stanza.
Perché ascolti sempre questa canzone così triste? Le chiesi.
Mi piace.
E’ troppo triste.
Me la cantava sempre mio padre mentre pescava. A sei anni era la mia canzone preferita.
Pensa! Dov’è tuo padre adesso?
Nello stesso posto di Pavese, ovunque sia. Poi spense il suo vecchio stereo preso al Baloon, e li capì che era finita la nostra
conversazione.
Quella fu l’ultima volta che la vidi, ripartì al mattino mentre io ancora dormivo.
Questa città, d’estate è deserta, dai viali si alzano folate di
polvere, passano venendo dal Po, cariche di sabbia, e l’asfalto del corso è tutto spalmato di pietruzze che cuociono nel catrame.
All’aperto, sotto gli ombrelloni a frange, i tavolini in ferro
battuto, abbandonati e roventi.
E dunque sì, è malinconica questa città che rassomiglia a lei.
Soprattutto quando cammino ascoltando la canzone del pesce spada, passando per il Baloon. A volte mi chiedo che fine abbia fatto. Non dormo più bene come una volta e sento ovunque il fischio dei treni.