Posted by on 14 ottobre 2016

 
 
 

FAN HO: la street photography come “Living Theatre” di Sarah Poli 

L’incontro

Ho “incontrato” Fan ho qualche anno fa per caso, durante un workshop di street photography e sono rimasta subito colpita dal fascino un po’ retrò ma al contempo attualissimo delle sue fotografie.

Ho deciso quindi di approfondirne la conoscenza, proponendolo come autore per una serata divulgativa al circolo fotografico. Non pensavo di trovare tanto apprezzamento per il lavoro di questo piccolo signore cinese che, nonostante i numerosissimi riconoscimenti internazionali per la sua fotografia, ben pochi conoscono.

Quando l’ho proposto è stato quasi divertente osservare le espressioni degli amici del circolo… nessuno sapeva chi era. Poi fatalità lo scorso giugno l’autore è deceduto e qualche sito di fotografia ne ha elogiato il lavoro, contribuendo a far conoscere ed apprezzare questo artista.

Approfondire la conoscenza di un autore significa per me anche coglierne aspetti della vita privata oltre che pubblica, per meglio comprenderne il pensiero e il sentire, ma con Fan Ho ho incontrato diverse difficoltà: del suo carattere e della sua vita si sa molto poco; era senz’altro una persona riservata e questo aspetto stride con la sua esposizione mediatica di attore, regista e fotografo.

Sì perché quest’uomo fuori dal comune ha incarnato tutte e 3 queste figure, riuscendo ad emergere in tutte le discipline per il suo stile innovatore e personalissimo.

Una vita, tre vite.

Fan Ho nasce a Shangai l’8 ottobre 1931, ma cresce a Canton. Inizia a fotografare a 14 anni, quando suo padre gli regala per il compleanno una Rolleiflex Twin Lens. Dopo solo un anno vince il primo premio ad un concorso fotografico.

Nel 1949, all’età di 18 anni circa, con l’avvento del comunismo in Cina, la sua famiglia si trasferisce ad Hong Kong, dove il padre, ricco commerciante, apre una tipografia. Hong Kong attraversava in quegli anni uno dei periodi più caotici (ma allo stesso tempo più vivaci dal punto di vista della rinascita economica e culturale) di sempre: questa è la città che accoglie il giovane Fan Ho, stregandolo definitivamente.

Prosegue gli studi nel collegio di St. Paul, uno dei migliori della città. Ama raccontare storie (fin da bambino adorava il cinema perché raccontava delle storie: spesso a casa da solo, passava ore a guardare film) e vuole diventare uno scrittore. Studente eccezionale, scrive così bene che viene soprannominato “Great Scholar” (Bah Gam) dai sui compagni e persino dai professori. Scrive di tutto, ma ama in particolare scrivere romanzi.

Purtroppo però soffre di emicrania e ad un certo punto deve abbandonare gli studi, perché leggere gli scatena forti attacchi. L’unico modo per alleviare il dolore é camminare all’aria aperta, ma girare per ore nelle strade può essere molto noioso, sicché comincia a portarsi dietro l’amata fotocamera. Di lì a poco partecipa ad un altro concorso fotografico e vince il primo premio; questo sarà di incoraggiamento a continuare a raccontare storie con un mezzo diverso dalla scrittura.

Sviluppa le immagini nella vasca da bagno e presto mette insieme un cospicuo lavoro, annotando l’evoluzione di Hong Kong negli anni ‘50-‘60, mentre la città sta crescendo, trasformandosi in una grande metropoli; è a quegli anni che si fanno risalire i suoi lavori più significativi. Fotografava sempre da solo, per non avere distrazioni, vestendosi in modo da passare il più possibile inosservato, ma ciononostante spesso incontra l’ostilità della gente (una volta viene persino inseguito da un macellaio con un grosso coltello in mano, che rivoleva indietro il suo spirito).

In questa Hong Kong in pieno sviluppo e rinascita, dove vi è spazio per le opportunità, nel 1961 Fan diviene anche attore per la Shaw Brothers: recita in diversi film, e si fa notare soprattutto nella parte del monaco nell’adattamento in 4 parti della novella ”The Monkey Goes West” (dove vince anche un premio per la recitazione) , ma anche in “Princess Iron Fan”(1966), “Cave of the Silken Web” e “The Land of Many Perfumes”. Oltre a recitare fa anche l’assistente alla regia (nel film “The Swallow”, 1961) e inizia a dirigere cortometraggi indipendenti, il primo dei quali (“Big City Little Man”, un corto di 30 minuti del 1963) viene premiato al Japan International Film Festival nel 1964.

Nel 1969 lascia lo studio dei fratelli Shaw ed entra definitivamente nel mondo della regia: dirige una ventina di film (27 per la precisione, nei suoi 35 anni di carriera da regista), tra corti e lungometraggi, per vari studi cinematografici di Hong Kong e Taiwan.

Vince con un suo film al Banbury International Film Festival in Inghilterra. Tre dei suoi film vengono scelti nella “Official Selection” dei festival di Cannes, Berlino e San Francisco; cinque appartengono alla “Permanent Collection” dell’archivio nazionale del cinema di Taiwan e Hong Kong. Oltre ai film indipendenti, è anche acclamato regista di film erotici, come lo sperimentale “Mi” del 1970, i film culto “Adventure in Denmark” (1973), “The Girl with the Long Hair”(1975), “Innocent Lust” e “Temptation Summary” del 1990.

Per quanto riguarda la fotografia, il periodo in cui più prolifico é tra i 20 e i 30 anni, le fotografie che l’hanno reso celebre sono quelle ambientate ad Hong Kong negli anni ’50-’60.

Lungo tutto il corso della sua carriera, è stato ripetutamente definito come uno dei migliori fotografi del mondo e uno dei più influenti in Asia.

Tra il 1958 e il 1965, è stato nominato per otto volte come uno dei primi dieci Fotografi del mondo da parte della Photographic Society of America.

Le sue foto sono apparse nelle pubblicazioni più prestigiose e presso molti media, dal New York Times alla BBC. Nella sua carriera, dal 1956 all’epoca della morte, ha vinto più di 280 premi internazionali di fotografia.

Il suo lavoro è conservato in collezioni pubbliche e private in tutto il mondo, tra cui la Bibliothèque Nationale de France, il San Francisco Museum of Modern Art e il Mariner’s di Melbourne, l’Hong Kong Heritage Museum e il Cleveland Museum of Art.

Infine è stato invitato come “Visiting Professor” da una dozzina di Università tra Taiwan e Hong Kong, dove ha tenuto lezioni di cinema e fotografia.

Ha scritto 5 libri, uno dei quali contiene tutte le foto che hanno ottenuto riconoscimenti e che attualmente fa parte della collezione permanente del San Francisco Museum of Modern Art.

Le tre pubblicazioni più note sono “Hong Kong Yesterday”, una raccolta delle fotografie di strada fatte ad Hong Kong negli anni 50 e 60 e che hanno ottenuto riconoscimenti internazionali, “The Living Theatre”, sempre sullo stesso tema e infine “A Hong Kong Memoir”, che completa la trilogia con una rivisitazione delle foto dell’epoca e nuovi montaggi.

Del cinema e della fotografia é solito dire: “Il cinema é il mio lavoro, la fotografia la mia passione. Preferisco la fotografia perché mi lascia più libertà di espressione, non ho la pressione del pubblico e dei botteghini”.

Negli anni ‘80 si trasferisce in California e all’età di 75 anni si ritira dal cinema; da allora il suo lavoro è concentrato sui vecchi negativi, un assistente per Lightroom e Photoshop, Brahms e Mahler come sottofondo musicale.

Muore di polmonite all’età di 84 anni all’ospedale di San Josè in California, il 19 giugno 2016.

La Hong Kong di Fan Ho.

Dopo la doverosa parentesi sul Fan Ho attore e regista cinematografico, è sul Fan Ho fotografo che vorrei far puntare l’attenzione del lettore perché è proprio in questo campo, forse più che negli altri in cui si è cimentato, che è emersa la sua personale visione della vita e dell’oggetto del suo amore incondizionato: la gente comune.

Fan Ho è stato innanzitutto un grande Fotografo, uno dei più grandi fotografi di strada: definito da più parti il Cartier-Bresson d’Oriente, è stato accostato ad Ansel Adams per la sua arte nella composizione e la sua magnifica tecnica di stampa; era soprannominato “The Great Master”, il grande maestro, perché tale era in effetti nell’uso della luce.

Ma cosa fotografava Fan Ho? La sua scenografia era la città di Hong Kong, i suoi attori le persone che la abitavano. La Hong Kong di Fan Ho era ben diversa da quella che conosciamo oggi: infatti, la fine degli anni 40 rappresenta uno dei periodi più caotici nella storia della città: colonia britannica, fu invasa dal Giappone nel 1941.

La sanguinosa battaglia di Hong Kong si svolse tra l’8 e il 25 dicembre 1941, tra le truppe dell’Impero giapponese e quelle dell’Impero britannico, nell’ambito della seconda guerra mondiale nell’oceano Pacifico. Si concluse con la vittoria dei giapponesi a la conseguente occupazione, da parte di questi, del territorio di Hong Kong.

Durante l’occupazione giapponese, i civili patirono carestia e iper-inflazione della moneta. A causa di ciò vi fu un rimpatrio di molti cinesi verso la terraferma e la popolazione si ridusse da 1,6 milioni di abitanti del 1941 a 600.000 nel 1945, quando il Regno Unito riprese il controllo della colonia. La popolazione crebbe di nuovo rapidamente a seguito di un’ondata di immigrati provenienti dalla Cina dove era in corso la guerra civile cinese. Quando fu proclamata la Repubblica Popolare Cinese, nel 1949, altri migranti fuggirono a Hong Kong per il timore di persecuzioni da parte del Partito Comunista. Molte aziende di Shanghai e Canton spostarono qui le loro attività e a partire dal 1950 si assistette ad una rapida industrializzazione, trainata dalle esportazioni tessili e dall’espansione delle altre industrie manifatturiere.

Una città quindi caduta e rinata, spopolata e ripopolata, in continuo, tumultuoso, divenire.

E dentro questa Hong Kong che chiamava “casa” ma che sapeva osservare con gli occhi si uno straniero, si muoveva furtivo Fan Ho, solo, attrezzato unicamente della sua fotocamera, senza altri accessori: sceglieva un posto, si piazzava come un piantone e lì attendeva.

Quasi come un monaco shaolin, attendeva il momento decisivo di bressoniana memoria. Ho lo descriveva così: “ Prima devi trovare la location ideale. Poi devi essere paziente ed attendere il soggetto giusto capace di suscitare il tuo interesse, anche semplicemente un gatto per esempio. Devi essere capace di cogliere l’attimo in cui lo spirito, l’essenza, l’anima del soggetto si rivelano. Se quell’attimo non arriva, devi aspettare la sensazione giusta. E’ un lavoro creativo, perché quella sensazione la devi avere dentro” .

L’obiettivo era che la luce e la composizione prendessero corpo nella sua fotografia, il risultato spesso una collisione tra l’inaspettato e una scena sapientemente composta, il suo stile (come lui stesso lo definì) “cinematografico”.

Molte sue foto sono fatte in diverse ore del giorno o in diverse stagioni dell’anno, ma nello stesso posto, ma altre sono frutto del suo girovagare, come un flaneur baudelairiano, per le strade. Amava fotografare al tramonto, quando il sole radente allungava le ombre e rigorosamente in bianco e nero “ Mi piaceva concentrare e semplificare il mondo in bianco e nero, era più simile alla mia natura. Potevo esprimere meglio e più liberamente le mie emozioni, potevo tenerle sotto controllo ed i risultati erano surreali e semi-astratti. Mi piaceva quella distanza, non troppo vicino, non troppo lontano…”

E queste sue emozioni si rivelano in contrasti profondi, forti luci tropicali e ombre avvolgenti e misteriose, luce e ombra come yin e yang: la città lo attrae e lo fagocita nelle sue geometrie, tramvie, riscio’, impalcature di bambu’, vicoli e mercati, acque limacciose dei canali solcate da piccole barche di legno; è un pulsare di vita, tra le difficoltà e la rinascita, sul quale lui stende le mani, come a sentirlo col tatto, quasi cercando di creare, con il suo amore per le linee pulite, l’ordine a partire dal caos.

Le location sapientemente studiate, le composizioni semplici, lineari e pulite, diventano set cinematografici in cui il regista Fan Ho, come un voyeur, attende che l’attore entri in scena a raccontare il suo dramma, giocando con la luce, la retroilluminazione o con una combinazione di fumo e luce. Ed è proprio il dramma che egli va cercando attraverso la luce, luce che non viene utilizzata esclusivamente per illuminare la scena o per creare un’atmosfera, ma che ne diventa voce narrante; il dramma che va in scena è la storia delle vite dei venditori ambulanti, degli anziani in costume tradizionale, dei bambini che giocano nelle strade, dei muratori che costruiscono il futuro di una megalopoli in crescita e tumulto, ma non è una storia di folle: è la storia di singole o poche persone alla volta.

Il sentimento che lo anima è la nostalgia del tempo passato, il vecchio contrapposto al nuovo, ma non è interessato a documentare i cambiamenti storico-sociali della città (pur facendolo, in effetti), gli edifici storici, i luoghi di interesse o gli eventi importanti del tempo. Lui si concentra sulla gente comune.

E di questa gente comune in questa città fuori dal comune Ho voleva catturarne la magia, un’inquadratura alla volta “Mi concentro sulla foto e sul momento. A volte è difficile. Devi pensare tutto il tempo. Devi pensare a oltrepassare, superare il tuo lavoro passato e andare oltre, con un nuovo punto di vista o un nuovo stile. Devi usare il cuore per trovare il momento decisivo, quello di cui parla Cartier-Bresson. In quel momento devi avere cura, respirare e amare l’universo, non solo pensare di fare una bella foto. Io metto tutta la mia intera vita in una singola foto. I rullini erano costosi ai miei tempi…mi sento come un cowboy con un solo proiettile e cerco il momento decisivo”.

 

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