Posted by on 2 maggio 2016

 
 
 

Fotografare? Bisogna anche saper scrivere

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Guarda dentro © Simona Guerra
Ho ragionato, sperimentato e scritto parecchio prima di affermarlo, ma sono ormai sicura che questo è uno dei futuri più immediati per la Fotografia: un futuro che chiede con forza all’autore di saper scrivere, di sapersi relazionare con le parole. Una possibilità che si offre come “soluzione” alla marea iconografica che ci invade ogni giorno e di cui gli occhi e i cervelli delle persone sono ormai stanchi.
Se da un lato la fotografia e la scrittura possono essere usate insieme, come un diario personale, in una dimensione piuttosto intima – che io chiamo Fotografia consapevole – in cui “mettere a fuoco”, con la penna e con la macchina fotografica, la nostra esistenza, dall’altro c’è la grande possibilità – ancora non pienamente colta in Italia – di far vivere la fotografia in un modo nuovo, in grado di farle continuare questo cammino di crescita, alla faccia di chi afferma che la fotografia è morta. No, cari miei, la fotografia non è morta!, la fotografia si è fatta un’amica: la scrittura. Un’amica di vecchia data diranno alcuni, un ritorno di fiamma forse, fatto sta che oggi la fotografia viaggia con la scrittura e i risultati sono eccellenti.
Sfogliate libri come quello di Sally Mann, ‘Hold still’ – un memoire con fotografie, come afferma l’autrice, ovvero suoi testi e parole; gustatevi ‘Doppia negazione’ dello scrittore Ivan Vladislavic, con fotografie di David Goldblatt; leggete e guardate il… fresco di stampa ‘Punto d’ombra’ del nigeriano Teju Cole. Vedrete il futuro (e il presente) della fotografia. Vedrete la sua nuova relazione con la scrittura; vedrete dove sta andando parte dell’editoria fotografica; vedrete la sua naturale, richiesta, attualissima commistione con la scrittura.
Ho sempre pensato che un vero Fotografo sia prima di tutto un intellettuale; una persona curiosa, colta (che coltiva) e che non si ferma all’immagine soltanto, seppure si esprime al meglio con essa. D’altronde si sa: la fiamma difficilmente nasce dall’autocombustione; ci vuole “altro”. Il futuro della fotografia dunque, uno dei suoi futuri, è quello in cui il fotografo sa scrivere, sa raccontare con la penna e non solo con le immagini. Un futuro in cui le immagini non vivono da sole ma hanno accanto dei testi. Perché il racconto sia coinvolgente e multiforme. Non vale chi dice che le fotografie devono parlare da sole. Tranquilli: lo faranno, seguiteranno a farlo, ma solo se saranno sicure di se stesse, se si sapranno far valere.
I Fotografi devono saper scrivere; i Fotografi devono imparare o rimettersi a scrivere. E quel che più mi piace di tale scenario che intravedo è che presto, i Fotografi, quelli veri, verranno confusi sempre meno con i pigiatori di bottoni. Perché scrivere non è come premere un bottone di una macchina da 4000 euro; la Smartpen da sfoggiare con gli amici non esiste e neppure Insalapis!. Il pigiatore di bottoni si stancherà; quelli che hanno qualcosa da dire invece, forse, inizieranno a respirare meglio.
Questo lo ha scritto Siri Hustvedta a proposito del libro di Teju Cole: “Quando l’otturatore si chiude, il mondo si ferma in un’inquadratura. Anche le parole vengono fissate dalla scrittura. Eppure, le immagini e le parole sono inattive finché non vengono viste e lette. Io, lo spettatore-lettore, animo il libro, ed essendo vivo, sono un corpo in movimento. Il ritmo del libro è stabilito fin dalla prima frase e dalla prima fotografia.” Un’immagine perfetta, io credo, che mi fa sperare nella fotografia che verrà.
Questo testo proviene dal mio Diario di fotografia consapevole.

Dopo questo interessante articolo di Simona Guerra, sto raccogliendo alcuni confronti tra amici appassionati di scrittura e di fotografia (IM) 

“Parto sempre da una fotografia, quando scrivo. Il più delle volte immaginata. E’ come se da un fermo immagine scaturisca un’onda che si muove, a creare una storia. E’ quasi un lavoro di raccolta, il mio. Raccolta di voci che solo io sento e che se ne stanno lì, in attesa. Alla fine diventa un mutuo scambio: le mie parole fioriscono, e l’immagine prende vita. Molti lettori mi fanno spesso notare come nei miei racconti sia facile immedesimarsi, entrare nella scena descritta e sentircisi parte. E’ proprio questo, quello che accade. Quando un’immagine mi colpisce, dà spazio a un’ispirazione. E allora, l’unico mio fine è quello di renderla vivibile, farla divenire reale e dar modo a chi la leggerà di trovarsi proprio lì, nel preciso attimo in cui è nata. E’ un momento sacro, quasi magico, che tento in tutti i modi di preservare. Ecco perché mi capita spesso di immortalare una scena con la camera del telefono, nel tentativo di fissare il momento nel tempo, per non perderne nemmeno una sfumatura. Così, estemporaneamente, mentre cammino o mentre sto guidando, mentre sono lontana anni luce da quello che ho davanti. Riguardandolo, poi, le parole scivolano fuori e le storie si fanno raccontare. E più ci poso sopra lo sguardo, più le voci che sento si fanno rumorose, amplificando le diverse gradazioni del loro suonoRaccontare con parole e immagini dà maggior spessore a un’opera. Crea una magia e la fa parlare su più piani. Vuol dire renderla più facilmente fruibile. Aiutare i sensi. Allenarli a lavorare in contemporanea. Uscire dallo stereotipo delle arti divise. Rendere più completo un viaggio emozionale. Dovremmo farlo tutti… ogni giorno. Sarebbe bello saper dire a chi ci sta vicino: guarda questa fotografia, le vedi quelle nuvole grigie? Sono come il mio animo, oggi, incolore ed inquieto. Oppure: osserva i fiori sparsi su quel prato. Ora chiudi gli occhi e immaginane il profumo: è lo stesso che hanno i miei pensieri, quando penso a te. Sarebbe bello.” (Tania Piazza, scrittrice)

Riflessioni assai interessanti, ma anche fonte di qualche perplessità.

Sì, certo, bisogna saper scrivere (direi che scrivere bene è quasi un dono), è sicuramente un plus importante, ma forse ancor di più bisogna riuscire a distinguersi, ad elevarsi.Se per “marea iconografica” Simona vuole sottintendere al volume debordante d’immagini, in gran parte simili, in gran parte già viste migliaia di volte, che i media ci propinano ogni giorno, ciò non significa che la fotografia sia morta (chi lo afferma?), o che stia morendo perché non sorretta dalla forza della parola. Che la platea di coloro che in tempi recenti hanno avuto accesso allo strumento fotografico sia aumentata a dismisura è fatto arcinoto: al tradizionale appareil photo si sono affiancati smartphone, tablet, webcam & sportcam con cui fotografare e filmare qualsiasi cosa capiti a tiro, bella o brutta che sia non importa;ma forse i nostri occhi e i nostri cervelli sono stanchi perché in realtà sono davvero una minima parte le immagini che “emergono”, riuscendo a catturare la nostra attenzione.Forse, dico forse, il fotografo, anche quello del futuro, potrà proseguire nel suo cammino di crescita migliorando innanzitutto le proprie immagini prima ancora delle didascalie, dei commenti o, a volte, dei veri e propri fiumi di parole che le accompagnano. Vorrei riportare un pensiero dello scrittore e giornalista Tiziano Terzani:  “L’invidia per i fotografi m’era cominciata in Vietnam quando si tornava dal fronte e quelli, avendo già fatto il loro lavoro, andavano dritti al bar, mentre a me toccava ancora mettermi con angoscia davanti al foglio bianco, allora infilato in una Olivetti Lettera 22, a cercare di descrivere con mille parole il bombardamento, la battaglia o il massacro del giorno che loro – fotografi bravi almeno –  avevano già raccontato in una sola immagine. Quella di cogliere il nocciolo di una storia con un clic è un’arte che mi ha sempre attirato. Per questo forse, da allora, sono sempre andato in giro con una vecchia Leica al collo quasi a rassicurarmi che, se mi fossero mancate le parole, una traccia di ricordo mi sarebbe rimasta nella pellicola.” (da UN MONDO CHE NON ESISTE PIU’) Certo che il vero fotografo è una persona curiosa, che coltiva, che addirittura si tratti prima di tutto di un intellettuale, che debba necessariamente saper raccontare anche con la penna, non credo, non sempre. Penso per esempio a Tazio Secchiaroli, che nel secondo dopoguerra si guadagnava da vivere facendo il fotografo ambulante per il centro di Roma, e che ad un certo punto della sua carriera, avendo praticato il fotogiornalismo in tutte le sue svariate accezioni, diventa fonte di ispirazione per Federico Fellini per la  sceneggiatura del suo film “La Dolce Vita”. Secchiaroli divenne il più noto “paparazzo” italiano, certo non un intellettuale, ma assolutamente curioso come pochi altri, come curiosi e colti sono tanti reporter dei nostri giorni, testimoni dei nostri tempi al servizio delle coscienze, intellettuali compresi. Non so se vale o non vale, non credo che le fotografie “debbano” sempre e solo parlare da sole, che “possano” farlo sicuramente si, vorrei citare un passo tratto da L’imaginaire d’après nature (L’immaginario dal vero) di Henri Cartier-Bresson, dove la visione del fotografo in qualche modo incontra quella dello scrittore (Terzani): “Per ciascuno di noi, a partire dal nostro occhio ha inizio quello spazio che si allarga all’infinito, spazio presente che più o meno intensamente ci colpisce e immediatamente diventa memoria e nella memoria si modifica in noi. Di tutti i mezzi di espressione la fotografia è la sola capace di rendere l’eternità d’istante.Noi giochiamo con cose in continua sparizione e, una volta sparite, è impossibile farle rivivere, non si può ritoccare il soggetto. Al massimo ci è consentito scegliere fra tutte le immagini raccolte per la presentazione di un reportage. Lo scrittore ha il tempo di riflettere prima di dar forma alla parola e di stenderla sulla carta, può legarla a tanti motivi, ci sono momenti in cui il cervello dimentica, cede. Per noi quello che sparisce è perduto per sempre: angoscia tutta nostra e nostra essenziale originalità di mestiere. A noi non è concesso rifare il nostro reportage una volta tornati all’hotel. Siamo chiamati a sorprendere la realtà con quel quaderno di schizzi che è il nostro apparecchio fotografico, a tirarla fuori e fissarla, ma non a manipolarlane durante le riprese, né tanto meno nel nostro oscuro laboratorio con qualche ricetta fatta in casa. Sono trucchi che saltano all’occhio di chi sa vedere.”   Vorrei infine fare mio (nel senso che lo sento mio) l’auspicio di Tania: Aiutare i sensi e allenarli a lavorare in contemporanea . Sarebbe bello. (Massimo De Crescenzo, fotografo)

Da una fotografia di Ivano Mercanzin, E.MAR ha scritto il racconto “Non lasciarmi adesso che ho tante cose da dirti” e questo il  commento di Franco Gobbetti. 

E bravo Ivano che riesci con sensibilità a trasmettere ancora più fascino e interesse a queste tue foto urbane, anzi superurbane. Ci riesci nel senso che sai unire sguardo e cuore, macchina fotografica e sentimento, visualizzazione e considerazioni liriche o poetiche. Le tue immagini appartengono al tessuto gigantesco di una enorme città. Esse ti impegnano e ti coinvolgono evidenziando non solo il linguaggio visivo ed espressivo delle situazioni, di questa situazione in particolare, ma riuscendo pure a liberare naturalmente un filo creativo ed emozionale più ampio e completo. Ne nasce quindi un racconto. Improvvisamente una storia prende corpo da un appunto, da un quadro in un fermo immagine, uno stop che non azzera ma evoca e rimanda a vari pensieri e considerazioni peraltro contingenti e conseguenti alla foto stessa. Evochi qui una storia raccolta per strada, dai marciapiedi e dai quartieri che nasce da un riquadro visivo urbano di comune vita cittadina e quotidiana. Bella la foto e bello pure il testo. In questo modo rispondi bene e in giusto tempo a quanto ha pubblicato qui sotto Simona Guerra nei suoi articoli riguardanti fotografia e scrittura che peraltro mi trovano d’accordo anche se l’argomento in se meriterebbe forse più spazio e approfondimento. Anch’io nella mia pagina sto tentando di sperimentare fotostorie o fotoracconti che pubblicherò quanto prima sottoponendoli a giudizio e commento pubblico e soprattutto tuo e vostro, se vorrete essere disponibili, spero di si. Credo comunque che un buon fotografo o un buon operatore impegnato nelle arti visive o nella comunicazione più in generale, da bravo cacciatore d’immagini e da bravo evocatore scenico, non possa che essere anche scrittore. Forse non riuscirà ad esserlo talvolta nell’espressione grammaticale più raffinata, sintattica, lessicale o stilistica ma lo sarà senz’altro nell’animo e nel pensiero. Come sempre un apprezzamento particolare per questi tuoi lucidissimi e molto umani bianconeri estremamente espressivi che sai far parlare al meglio in tutta la loro grafica e che riescono ad animare situazioni, estetiche, storie e varie umanità attraverso la loro particolare e talentuosa grafia narrante e narrativa..

Condivido pienamente.
Coniugare fotografia e “parola” è un percorso che mi ha sempre attratto. Di cui ho sentito anche l’esigenza, in un lavoro iniziato qualche anno fa. Non tanto per rafforzare il tema iconografico con un testo, o viceversa. Ma perché, un po’ come dici tu, Ivano, una stimola l’altra per percorsi probabilmente neanche immaginati lontanamente al momento del “click”. Nel mio percorso, fermo da qualche anno, mi sono comunque spinto oltre, tentando di coinvolgere anche un altro dei nostri sensi, suscettibile all’emozione. Quindi sposo interamente il concetto, rigettando le teorie che indicano come troppo lontane o diverse queste due “arti”. Di fatto, sarebbe come dire che scultura (o pittura) non possono essere in connubio con la poesia. Quando invece, ogni forma d’arte porta in se stessa il germe di quest’ultima. (Paolo Pellizzari) 

 

La fotografia e la scrittura hanno un rapporto molto stretto se si considera che l’obiettivo della fotografia sia quello di immortalare un momento inteso come relazione tra passato, presente e futuro. In quanto tale lo scatto è narrazione in sé di una realtà che è stata e che si è tramutata in segno.

Invero, la fotografia ha più volte influenzato scrittori e poeti in merito al potere narrativo ed evocativo del proprio linguaggio figurativo. Inoltre oggi la fotografia, con l’avvento del digitale, è diventata il più diffuso mezzo di comunicazione e sembra essersi delineata come sostituta della parola. Un’invasione di immagini digitali avvertite come un investimento della memoria a lungo termine.

E’ possibile un incontro tra la fotografia e scrittura? È pensabile un dialogo tra queste due forme d’arte che in molti hanno provato a fondere, spesso in modo forzato o meccanico?

Molti fotografi sono convinti dell’autosufficienza espressiva delle immagini, così come molti scrittori sono convinti della superiorità della scrittura, dimostrando una certa rigidità culturale. A mio parere la fotografia e la scrittura sono entrambe espressioni della comunicazione umana ma non condividono il medesimo piano semantico. Tra di loro quindi non vi può essere competizione, una fotografia non può essere “spiegata” e un testo non può essere “visualizzato” perché andrebbe ad impoverire l’interpretazione soggettiva dell’opera d’arte. Ritengo però sia possibile una complementarietà. Fotografia e scrittura possono dar luogo a degli ibridi, la scrittura può aiutare il fotografo a strutturare meglio il proprio lavoro. L’integrazione dovrebbe presentarci una terza visione dei fatti, indipendentemente dal testo e dall’immagine fotografica. A tal fine non si può più pensare a discipline separate, ma bisogna esprimersi nella multi direzionalità ed esplorare la comunicazione da diverse angolazioni.

Si dovrebbe giungere ad una nuova espressione artistica definita come somma di esperienze estetiche, espressione di una realtà mutevole ed instabile come quella in cui viviamo.

(Rossana Ottofaro)

 

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