Posted by on 1 aprile 2016

 
 
 

TRACCE di Pino Dal Gal 
“Tutto inizia dal ritrovamento di un diario…
Tracce è un percorso nel tempo che ho scelto di rappresentare in un ambiente degradato: tracce di storie vissute, segni trasformati dal tempo, testimonianze del passato, memoria iscritta negli elementi.
Il fascino della metamorfosi della materia che rivela una nuova inattesa estetica,  viene illuminato da una figura femminile delicata ed eterea, a volte evanescente, che simboleggia un elemento di speranza per il futuro.”
foto di Pino Dal Gal.

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I FRAMMENTI, L’EFFIMERO, LA SFIDA

Che sia un mondo usa-e-getta ormai lo sappiamo. Veloce, “liquido” (Bauman), dove tutto si consuma, cambia e finisce. Oggetti, merci, esperienze, vite. Lavori, sentimenti, relazioni. Luoghi e tempi effimeri. Uomini schiacciati nell’effimero e nel presente che si brucia, divampa come un incendio invisibile. Un incendio senza miti, valori, senza città da salvare, spesso, agli occhi dei più. Le “tracce” di Pino Dal Gal raccolgono, fissano con grande umanità e con un gesto ancora di “pietas” quello che resta. Lo salvano come un Enea moderno salva una città, andandosene altrove. Ma cos’è questo “altrove”? L’autore, il vero autore salva il mondo, le sue sfaccettature, i suoi respiri e li fissa nella bellezza, li estrae dalla viziosa, perversa logica del consumo, economica e fine a se stessa. Ne fa qualcosa che dura nel tempo, che scavalca quella logica disumana con un’antilogica: quella dell’arte, della poesia, anche della sola luce in forma di foto. In quale forma, di luce, colore, spazialità, poesia, non importa: importa quel gesto che raccoglie e salva, ferma ed eleva i frammenti di un mondo produttivo e precario, frenetico e distruttivo, che ha per scopo la fine di ogni oggetto o esperienza umana. Pino Dal Gal, come un sacerdote umile e venerabile, silenzioso e benevolo, consegna queste “tracce” a un tempo nuovo. Rigenerato. Parallelo e profondo. Un “varco” (Montale) dentro la bellezza, un “varco” di struggente, poetico, visivo amore per la Vita.                                                           (Luciano Benini Sforza)

Il titolo, “Tracce”, è quasi un ossimoro che Pino mi lancia come sfida. Non pare lasciare tracce, infatti, la figura appena accennata della donna in abito bianco, impalpabile, non violato. Il forte contrasto che mi scuote è proprio tra la potenza dello sfondo – muri chiazzati di nero, urlanti, violenti – e il candore e la vulnerabilità del raggio di luce che entra in punta di piedi dalla finestra, quasi a benedire il corpo raccolto di lei. In trasparenza, poi, spuntano i suoi contorni scuri, come a ricordare la connivenza, sempre, tra i due limiti: il chiarore e il buio, il buono e il cattivo, il bene e il male. Una splendida citazione dell’ Hermann Hesse di “Demian”.
Complimenti a Pino, ancora, per come quei piedi appena disegnati se ne vanno sulle pietre brunite e per come lo sguardo aperto della donna, alla fine, sembra indagare  a fondo su ciò che vede, fino a portarla, in ultima, a divenire parte attiva del tutto nel modo più logico possibile, lasciando le sue “Tracce” sul nero di quel muro  al quale non gira più le spalle, ma pare racchiuderla, in qualche modo. Sempre, con un temerario raggio di sole che le accarezza il profilo.                                                                                                                                                                                                      (Tania Piazza)

Tracce, segni, scritture antiche, come vecchie pergamene ingiallite dal tempo, linguaggi che narrano di passato, di memorie, di ricordi.                                                                                                             In questa Babele, la luce penetra attraverso anfratti di location desolate, materiche pareti incrostate di tempo, arcobaleni di colore, fili sottili che sembrano reggere pannelli sovrapposti che ondeggiano nella luce.
Una figura femminile, dea, ninfa, sirena, docile e arrendevole, evanescente e impalpabile, delicata come un soffio di vento , un alito di niente, scalza, cammina su macerie, incide su pareti graffiti primordiali,  segni del tempo, alla ricerca della chiave di lettura, del  codice arcano che traduce, trasforma, comprende.                                                                                                                                 Un giardino senza fine, tappeto d’erba, linee di giallo, macchie di verde, un prato color  lavanda provenzale, una sedia fa capolino, lasciata e dimenticata, gloriosa presenza di un tempo, quasi regale ad accogliere la ninfa, la dea,  che ora,  forse per un istante lungo come l’eternità, si fa presenza-assenza.                                                                                                                                                         (Ivano Mercanzin)

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