Posted by on 28 dicembre 2014

 
 
 

PADRE EGIDIO

Prete, chirurgo e direttore di un ospedale nelle zone controllate dai ribelli nel nord dell’Uganda.

Fuori dall’ospedale due carri armati e tre mitragliatrici hanno protetto per molto tempo l’unico vero rifugio per la popolazione.

Comboniano – Kalongo, Uganda – dal 1976

Mi chiamo Egidio, e sono nato in Valtellina durante la guerra.

I miei genitori erano contadini, e con la loro povertà e i loro sacrifici mi hanno insegnato ad affrontare le difficoltà della vita. Il maestro Enrico in V elementare ci leggeva i libri e si lasciava commuovere dal racconto, e piangeva. Allora mi sorprese, ma oggi credo di dover a lui la sensibilità verso le sofferenze degli uomini. Fu lui a leggerci la biografia di Padre Damiano dei Lebbrosi, che chiese di essere sbarcato nell’isola maledetta di Molocai dove venivano esiliati i lebbrosi, per morirvi lentamente. Lì visse, amò i suoi fratelli, e morì lebbroso, come uno di loro.

Questa storia mi colpì profondamente, e piansi, di nascosto dalla mia fidanzatina e compagna di banco. Pochi mesi dopo incontrai un missionario in casa di mia zia. Mi chiamò vicino a sé e mi chiese se mi sarebbe piaciuto diventare missionario. Io risposi di sì senza doverci pensare un minuto.

Entrai nel Seminario dei Missionari Comboniani e a 18 anni conobbi il medico missionario Padre Giuseppe Ambrosoli, che allora lavorava a Kalongo in Uganda. Per me fu esempio e guida. La mia attesa esistenziale era per le missioni africane. Chiesi e ottenni dai miei superiori di poter studiare medicina all’Università dopo l’ordinazione sacerdotale. Dopo la laurea raggiunsi Padre Ambrosoli in Africa, dove trascorsi un anno e feci pratica nella chirurgia tropicale, prima di tornare a studiare Ostetricia e Ginecologia. Nel primo viaggio verso l’ospedale fummo fermati da un blocco militare. Fu il primo incontro con quei soldati avrei dovuto incontrare a centinaia durante gli anni.

Nel 1987 Padre Ambrosoli morì in Africa, durante episodi di guerriglia. Era malato, e poteva essere rimpatriato e salvato, ma lui chiese ai superiori di lasciargli il tempo di salvare la Scuola di Ostetricia prima di tornare a casa. Gli costò la vita. La guerriglia impedì il trasporto via terra in ambulanza, e quando arrivai in elicottero era troppo tardi. L’ospedale di Kalongo rimase senza medici per 2 anni e la gente del posto lo difese a costo della vita dai ribelli che volevano bruciarlo. Nel 1989 i miei superiori mi inviarono a Kalongo per riaprirlo. La gente del posto esultava di gioia, letteralmente. Le donne si attaccarono alle campane e continuarono a suonarle. Ovunque sentivamo grida, pianti di gioia, rumori di clacson festanti. Fu un periodo molto difficile a causa della mancanza di medici e infermieri, dispersi dalla guerra. La prima cosa che riuscii a fare fu di riaprire la Scuola di Ostetricia fondata da Padre Ambrosoli, convinto –come lui- dell’importanza essenziale della donna africana nell’opera di salvezza di mamme e bambini. Col passare degli anni ho compreso che in Africa la donna è colei che può salvare questa terra così bella e così felice, con la sua immensa capacità di amare e soffrire. Ho insegnato con grande gioia, non solo per trasmettere la scienza medica, ma soprattutto per risvegliare in loro il senso di dignità e grandezza. Le stesse donne che durante la guerra venivano rapite per farne schiave del sesso, mi chiamavano “Abà (papà)” e imparavano a riprendersi la loro vita e quella dei loro figli, rapiti per anni per farne dei bambini-soldato.

Fuori dall’ospedale c’è un carroarmato che ci difende. Durante i 19 anni di guerriglia siamo scappati e tornati. Sappiamo che la prima difesa deve esistere oggi nelle menti e nei cuori delle donne, nella loro libertà.

La mia ultima scommessa prima della pensione è stata quella di dare un futuro africano all’Ospedale e alla Scuola di Ostetricia. Ho qualificato Suore e laici ugandesi che ora dirigono l’Ospedale. Suor Vincentina ha terminato la specialità di Ostetricia e occupa il posto di vice-direttore. Suor Carmela ha terminato a Londra i 2 anni di preparazione e dirige la Scuola al posto delle suore comboniane italiane. Ho condiviso con San Daniele Comboni il sogno finale: “Salvare l’Africa con gli africani”. Fin da bambino mi hanno citato la frase di Gesù: “Ama il tuo prossimo”. Dopo 31 anni di Uganda ho imparato il significato del resto della frase: “come te stesso”.. Chi non ama anche se stesso, dunque, non può amare veramente il suo prossimo.

Mi chiedono oggi se ho il Mal d’Africa. All’Africa io so di aver donato la parte più bella della mia vita, e sento di aver ricevuto in cambio moltissime gioie.

(Progetto e fotografie di Luciano Perbellini)

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