Ha costruito opere immani in molteplici settori, in un ambiente bruciato dal sole.
Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere) – Karunapuram, India – dal 1952
Sui banchi di scuola ho imparato storia, geografia, matematica, come tanti. La strada mi ha insegnato la vita. Come a tanti. Giocavamo al “mondo”: si disegnava il mondo, si gettava una pietra e la si doveva raggiungere con un salto e poi su di un piede fare il giro del mondo. Segreto della vittoria: misurare bene le distanze, mai fare il passo più lungo della gamba. Giocavamo ai “pennini”, segreto della vittoria: aspettare l’occasione e coglierla al volo. Giocavamo alle “figurine”, comprandole e vendendole come fossero titoli della Borsa. Ma non lo sapevamo, certamente. Noi imparavamo “il mondo”. E il senso di comunità, di “gente”.
Nel 1952 partii per l’India, dove venni scaraventato in un villaggio fuori dal mondo. Gli uomini morivano di malaria, le donne erano terrorizzate dalle infezioni puerperali, i bambini decimati dalla dissenteria. Laggiù, nel villaggio fuori dal mondo, schiodai in fretta le casse di medicinali e ricordai ancora più in fretta i rudimenti di infermeria appresi in Italia. Con poche pillole di chinino, due iniezioni di penicillina e tre capsule di vitamine cominciai a fare veri miracoli strappando dalla morte centinai di vite. A solo un anno dal mio arrivo, io avevo investito la mia vita, ma ne avevo ricevute 100 e più in cambio! L’investimento del dare 1 per avere 100, l’1 per 100, che avevo imparato anche giocando in strada. Funzionava!
Ora guarivo uomini, donne e bambini dalle febbri malariche e dalle infezioni. E poi li vedevo morire di fame… Tentai un altro investimento. Presi tutto il mio capitale, frutto di una piccola eredità lasciatami da mio padre, convinsi le suore a far lavorare le donne del villaggio, mentre i mariti costruivano il primo nucleo di quello che poi sarebbe diventato il grande laboratorio di pizzi e ricami. E così dall’India iniziammo ad esportare tovaglie ricamate a mano e merletti per lenzuola. Lavori ottimi, tanto che dall’Italia proposero ulteriori investimenti. L’economia, il nostro “giocare al mondo”, dava cibo a quella che era diventata la mia gente. Accade così che invece di un villaggio lavorarono e si sfamarono cento villaggi. L’investimento era perfettamente riuscito.
Salvato il singolo dalla malattia e dalla fame, c’era da tutto ancora da fare per i “tanti” , la comunità. E i tanti avevano bisogno di una scuola. “Caro padre se vuoi mandare i bambini a scuola, mantienili tu!” mi dissero i capi villaggio. Era una sfida. Ma ora eravamo in tanti a voler tentare l’1 per 100. Bastavano mille lire per mandare un bambino a scuola in India e dargli un piatto di riso.
E le mille lire dall’Italia furono così tante che via via vennero aperte scuole in molti villaggi. I primi bambini che avevano cominciato a studiare erano diventati maestri ed avevano ottenuto un impiego: un maestro ogni 100 bambini. Obiettivo raggiunto.
Il processo però aveva richiesto tempo e intanto era cominciata l’era elettronica, l’era delle macchine. E per usare la macchina non bastava più l’ottava classe: ci voleva una specializzazione, una laurea. Non bastavano più i maestri, occorrevano professori, tecnici, contabili… Ma le scuole tecniche e le università non si possono attrezzare con pochi soldi, con i piccoli investimenti, con l’1 per 100.
Ci salvò la buona volontà e la fede dell’altra mia gente, quella lasciata in Italia, quella nata nella mia stessa strada. In molti furono pronti per un investimento anomalo, molti seppero capire il valore dell’educazione per il riscatto dei poveri e tentarono l’investimento del 100 per 1: questa volta investire tanto, 100, “100 soldi” per ottenere l’1, l’ultimo bene, quello che non si può comprare con l’oro: dare un senso alla propria vita, e per chi crede come me, ottenere la Vita Eterna. Così a Karunapuram, il nostro villaggio, nacque il complesso universitario che attualmente raggruppa le facoltà di lettere, informatica, economia e commercio, scienze, e per ultimo il progetto più impegnativo, la facoltà di Ingegneria.
Ho imparato per strada ad essere “imprenditore”, e sono diventato un “imprenditore di Dio”, che investe 1 per avere 100 e poi viceversa, che investe la sua vita per avere quello che per me è il massimo guadagno: la vita della mia gente e la vita eterna.
(Progetto e fotografie di Luciano Perbellini)