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da San Basilio … quando il reportage racconta storie da ascoltare.
Il sole è allo zenit quando scendiamo dall’autobus e ci investe improvvisa una folata di aria secca e asfissiante. All’imbocco del sentiero che conduce a San Basilio de Palenque ci attende un folto gruppo di giovani in moto che per 3000 pesos colombiani a testa ci sottrarranno al supplizio di dover percorrere a piedi, sotto un sole omicida, i sei chilometri che ci separano dal villaggio. Le trattative sono più rapide e indolori del previsto e dieci minuti dopo, per 2000 pesos, i nostri driver ci depositano sulla piazza centrale di Palenque. Ci infiliamo in un ristorante per placare l’arsura e rifocillarci. Accanto a noi un uomo dalla voce calda e rassicurante accompagna il nostro pasto con i racconti del suo paese. Racconti che invocano l’Africa come passato, presente e futuro.
Ma è quando usciamo dal ristorante e ci perdiamo lungo le strade in terra battuta del villaggio in cerca di un po’ d’ombra che il richiamo dell’Africa assume forme concrete. Il nostro incedere lento e sofferente attira l’attenzione di una coppia di anziani che ci invita a entrare in casa sua, salvandoci da un colpo di calore. Ed è in questa coppia di anziani che ci apre le porte di casa sua, nell’ospitalità dettata dal mero desiderio di condividere, che ritrovo il calore dell’ Africa. Il loro desiderio di condividere con noi dei pezzi di storia ci spinge ad entrare.
“Chiedetemi tutto quello che volte, se non so rispondervi non lo farò” ci dice lui, 93 anni, ormai quasi completamente sdentato. Accanto a lui la moglie, 86 anni, con l’espressione di un bambino che scopre l’acqua calda. Sono sposati da 70 anni e insieme hanno avuto dieci figli. Una è nata morta. Uno soffre di epilessia. Un’altra è stata partorita in cima a un monte ed è affetta da qualche strana malattia. La sua nascita ha segnato le sorti della famiglia. Lui era sul punto di trasferirsi a Panama per lavoro, il che avrebbe significato senza ombra di dubbio un’esistenza più agiata ai suoi cari, ma ha scelto di restare accanto a lei, di non privarla del suo sostegno, continuando a raccogliere banane. Non c’è rammarico nei suoi occhi, non c’è il rimpianto per non averlo fatto.
Continua a parlare, a raccontarci di com’era Palenque all’epoca dei suoi nonni e dei suoi genitori, esprimendo una sorta di disagio per il cambiamento epocale di cui è stato testimone. Ci rivela che un tempo le festività venivano celebrate con solennità, che per l’occasione si ammazzava il maiale e si aprivano le porte di casa agli ospiti per i tre, quattro giorni della ricorrenza. Oggi, però, non è più così. Oggi il Natale si festeggia in famiglia. E non con la grande famiglia, come la chiamano in Africa, dove l’amico del padre diventa un fratello e fa quindi parte della famiglia. “Perché non ci sono soldi e bisogna adattarsi alle situazioni”, mi confida con una punta di nostalgia.
È l’unica nota stonata che colgo nei suoi racconti e la domanda sorge naturale. Se dovessi tornare qui tra vent’anni, riuscirei ancora a sentire il richiamo dell’Africa? Continueranno i palenqueros a danzare al ritmo dei tamburi? A usare la medicina tradizionale per curarsi? A commemorare i defunti per nove giorni? A mantenere viva la loro lingua? Le loro tradizioni? Le loro acconciature? Le loro radici? Forse anche lui si pone la stessa domanda e forse è per questo che vuole condividere con noi un pezzo della sua storia e a rendersi partecipe di un pezzo della nostra.
Ma noi abbiamo una storia in comune. La nostra storia, attualmente, si chiama 7milamiglialontano. E per fissarlo meglio cerca di ripeterlo…
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