intervista di Alessia Glaviano
Ho intervistato Davide Monteleone da MiCamera a Milano, dove si trovava per tenere un workshop.
Monteleone, classe 1974, oltre ad avere vinto molti premi internazionali fra cui più volte il prestigioso World Press Photo, è motivo di grande orgoglio per l’Italia per la qualità della sua fotografia. Le immagini di Davide sono di un’intensità straordinaria, colte, impegnate, narrative, rarefatte, schive e ombrose – come lui d’altronde.
Monteleone, membro dell’agenzia VII dal 2011, ha pubblicato 3 libri, il primo nel 2007 Dusha, Anima Russa, è il frutto di un progetto realizzato tra il 2002 e il 2007 per cui Davide ha attraversato molte delle repubbliche ex sovietiche per cercare di cogliere e trasmetterci l’enigmatica e melanconica anima del popolo russo. Il secondo libro La Linea Inesistente arriva nel 2009, e narra del viaggio del fotografo lungo la ex cortina di ferro; infine con Cardo Rosso, pubblicato nel 2012, Monteleone vince l’ European Publishers Award for Photography 2011, raccontando il Caucaso dopo aver viaggiato per tre anni in Cecenia, Ossezia del Sud e del Nord, Abcazia, Ingushezia, Daghestan, Cabardino Balcaria, Karačaj-Circassia.
Monteleone ha iniziato a fotografare nel ’98 e poco dopo, nel 2001, si trasferisce in Russia, dove doveva restare sei mesi – ma se ne innamora a tal punto da eleggerla a seconda casa, decidendo alla fine di vivere fra Mosca e Roma. Della Russia mi dice che “è un amplificatore degli stati d’animo che qui non si possono esprimere. Se immaginiamo lo stereotipo per eccellenza della Russia, credo che chiunque definirebbe un russo come malinconico e nostalgico e siccome io sono, principalmente, anche malinconico e nostalgico vado in Russia e posso esserlo senza nessun problema”.
L’approccio di Davide alla fotografia non è mai frettoloso, casuale, i suoi progetti si snodano sempre sul medio e lungo termine e hanno diversi livelli di lettura, per cui anche gli aspetti che a prima vista possono essere più legati all’attualità vengono affrontati in modo tale da approfondire e sviscerare temi universali della condizione umana. “Se vado nel Caucaso non necessariamente devo tornare indietro con una storia che parla esclusivamente di Caucaso, mi incuriosisce quella storia perché in realtà per me rappresenta il miglior esempio di una storia sul potere, oppure sulla condizione umana in un sistema un po’ represso”.
Monteleone ha una sua precisa cifra stilistica, molto riconoscibile, ma non premeditata, più il frutto di informazioni ed elementi sedimentati nella sua memoria, riferimenti estetici, culturali, visivi e letterari che come dice Davide saltano fuori come da uno schedario nel momento in cui fotografa o che decide di affrontare un progetto: nel suo lavoro di Monteleone possiamo cogliere accenni e squarci delle atmosfere evocate da Tolstoj, Goncharov, Dostoevskij.
“Credo che, in realtà, qualsiasi forma d’espressione sia un po’ trasferimento di un’altra forma di espressione in un altro linguaggio, è molto semplice: uno legge un bel libro, si immagina delle cose e poi siccome fa il fotografo le trasforma in fotografie – se facevo il cuoco le avrei trasformate in ricette”. La fotografia di Monteleone è interpretativa: conscio della natura menzognera dell’immagine, pur rispettando le diverse realtà che fotografa Davide ci restituisce senza ipocrisie la sua visione personale.
Gli chiedo cosa pensa della post produzione, argomento particolarmente scottante ultimamente negli ambienti del fotogiornalismo e la sua opinione, per quanto le immagini evidentemente molto post prodotte non incontrano i suoi gusti, è che “se parliamo di fotogiornalismo stretto forse sarebbe il caso di essere un pochino più attenti. A me fa sempre un po’ sorridere quando si parla di etica della fotografia o etica del giornalismo: cioè, si parla sempre dell’etica come se fosse qualcosa di attaccato a una professione, ma l’etica è etica, non deve essere necessariamente attaccata a un mestiere o l’aggettivo di un mestiere, l’etica è l’etica e l’etica ce l’ha un essere umano. Ci sono dei limiti che uno decide di non oltrepassare per quella che è la propria etica, la propria morale, e non hanno niente a che vedere con la professione“.
Gli chiedo quale crede sia la direzione in cui sta andando la fotografi documentaria: “Per me la fotografia, anche la fotografia documentaria oggi ha la funzione di incuriosire il pubblico. La quantità di informazioni disponibili a un utente medio non è mai stata così alta come ora: cioè, se tu vuoi sapere qualcosa del Burundi, ti metti su internet,e volendo trovi tutto quello che hai bisogno di sapere del Burundi, Il problema è perché mai tu dovresti andare a cercare qualcosa sul Burundi? C’era la famosa battuta di Guzzanti, su “Io e l’aborigeno oggi possiamo comunicare alla velocità della luce, ma io e te aborigeno che ci dobbiamo dire?”. Ecco, allora il concetto è lo stesso, il fatto che ci sia un quantità di informazioni esagerate al giorno d’oggi non significa che poi tutti le vadano a cercare. Allora per me il mio lavoro è che se faccio un libro sul Caucaso è semplicemente per dare uno spunto che possa essere l’inizio per aprire una porta e andare a scoprire cosa succede nel Caucaso. Questo è lo scopo della mia fotografia e della fotografia documentaria per come la intendo io oggi. Non è semplicemente questione di avere delle fotografie che sono irrisolte o sono dei punti interrogativi, delle finestre sul mondo, ma va addirittura oltre, cioè, cercare di avvicinare un audience qualunque, un pubblico qualunque, a un soggetto a cui normalmente non si interesserebbe“.