Posted by on 10 novembre 2014

 
 
 

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Si chiamano Janeth e Freddy. Lei, 47 anni, viene dalla Valle del Cauca e lavora come contabile. Lui, cinque anni più giovane, è originario del Tolima e si occupa di informatica. Due professioni che gli garantirebbero una stabilità economica e un tenore di vita superiore alla media, considerato che in Colombia lo stipendio minimo non supera i 300 dollari mensili. Ma loro hanno fatto una scelta di vita che fa la differenza. Janeth e Freddy appartengono infatti a quella categoria di persone il cui credo è di gran lunga più importante del proprio orticello.

E il loro credo ha un nome. Si chiama Colombia. Otto mesi fa hanno lasciato la loro terra d’origine e si sono trasferiti nel Quindio, uno dei tre dipartimenti del cosiddetto Eje Cafetero, con l’obiettivo di fornire ai piccoli produttori locali di caffè gli strumenti per imparare a vivere del proprio lavoro e non semplicemente a sopravvivere.

La loro casa una tenda; il loro mezzo di locomozione una Land Rover che li guida di finca in finca, di produttore in produttore, di piantagione in piantagione per divulgare il loro credo e il loro sapere; la loro grande ricchezza una grande energia.

Me li trovo davanti quando tiro fuori la testa dalla tenda. Cappello di paglia sul capo, pantaloni infilati negli stivali di gomma e un sorriso smagliante che mi mette subito di buon umore. Hanno notato i nostri vistosi mezzi dall’altra parte della strada, mi dice lei, e si sono avvicinati incuriositi. Gli spiego brevemente il progetto di 7milamiglia e gli dico che vorremmo visitare una piantagione di caffè. Ci propongono di fare un giro con loro per toccare con mano le piccole realtà locali nei dintorni di Filandia. Non ce lo facciamo ripetere due volte e in men che non si dica siamo a bordo della Land Rover con taccuino e attrezzature alla mano.

“La Colombia è una grande produttrice di caffè ma non è assolutamente in grado di trarre benefici concreti da questa enorme fonte di ricchezza. La maggior parte del caffè viene prodotto in questa parte del paese che per la conformazione geologica del territorio e il clima favorevole ben si presta a questo tipo di coltivazione, ma per lo più si tratta di piccole piantagioni a conduzione familiare che non lo sanno assolutamente processare” mi dice Freddy mentre ci dirigiamo verso la prima finca. Interviene Janeth, alla guida, spiegandomi che questa è precisamente la ragione per cui si trovano qui. “I piccoli produttori locali vendono il caffè in grani subito dopo la raccolta, e quel che ricavano copre a malapena le spese di produzione e garantisce alle loro famiglie la sopravvivenza. Noi vogliamo insegnargli a processare il caffè, inclusa la fase di confezionamento, per poi poterlo vendere all’interno del paese”. Di fronte alla mia espressione perplessa, mi spiega che la maggior parte del caffè prodotto in Colombia viene esportato e che paradossalmente l’80% del caffè consumato dai colombiani viene importato dall’Ecuador. La loro idea è quindi quella di dar vita alla produzione di un caffè di media qualità da distribuire nel paese che vada ad incrementare la microeconomia colombiana, con risvolti positivi anche per l’economia generale.

La prima sosta è alla finca di don Luis che ci accoglie con un caloroso BIENVENIDOS. La piantagione è piccola ma consta di tre differenti varietà di caffè, di cui solo una resistente alla roya, altrimenti nota come la piaga del caffè. E una piaga dev’esserlo davvero per i coltivatori vista l’enfasi con cui don Luis ne parla con Freddy, invitandolo ad aprire chicchi di caffè per presentarmi l’ospite indesiderato.

Nella seconda finca, leggermente più grande, assistiamo alla fase della raccolta. Don Elia, il proprietario, ha due uomini che lavorano per lui. Dalle sei della mattina alle cinque del pomeriggio, quando va bene. Sono velocissimi nel riempire di chicchi rossi i secchi gialli attaccati in vita. Non si fermano nemmeno un minuto. Vengono pagati 25 centesimi di dollaro per ogni chilo raccolto. Il guadagno medio giornaliero per chi lavora nelle haciendas oscilla, nella migliore delle ipotesi, tra i 10 e i 15 dollari al giorno. Lascio la finca di don Elia con l’amaro in bocca quando Freddy mi conferma che nemmeno i bambini sono esenti da questo tipo di sfruttamento.

Nella terza finca, piccolissima, Freddy ci guida in una stanzetta buia dove ci investe improvviso l’odore nauseante della fermentazione. È il luogo in cui i chicchi di caffè, ormai secchi, vengono sgranati e lavati prima di essere venduti al mercato locale.

La nostra ultima tappa è il capannone in cui vivono accampati Freddy e Janeth. Ci mostrano orgogliosi un macchinario del 1947, utilizzato anticamente per tostare il caffè. Non è più funzionante ma lo stanno ripristinando per poter concretizzare il loro progetto.

“Il nostro obiettivo” conclude Janeth accompagnandoci all’uscita dopo averci omaggiato di un dolcetto a base di pannella “è quello di sensibilizzare i colombiani al rispetto di se stessi e del loro lavoro”,

Mi allontano con la consapevolezza che quest’incontro non è stato casuale e che il ricordo di Freddy e Janeth non si dissolverà così in fretta. Ancora una volta, come a San Basilio de Palenque, gioisco del piacere di poter scambiare con dei perfetti sconosciuti un pezzo della loro storia con un pezzo della mia.

Diana

web: 7milamiglialontano.com

web: 7milamiglialontano.org

 

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