Per scongiurare l’incubo dello sdoganamento macchine, che dovrebbe avere inizio domani mattina, optiamo per un’escursione fuori porta in quel di San Basilio de Palenque, la prima comunità di schiavi, deportati ai tempi della colonizzazione, ad ottenere l’indipendenza dalla corona spagnola. Ancor prima della stessa Colombia.
Era il 1603 quando Benkos Biohó, alla testa di un gruppo di schiavi cimarrones, fuggi al controllo di Cartagena e si insediò nel territorio dell’attuale San Basilio. Un pezzo di storia africana, tramandata di generazione in generazione, che si conserva nei Palenqueros attraverso la danza, la musica, la medicina tradizionale, la gastronomia, i riti ancestrali.
E nel percorrere, sotto un sole assassino, le vie desolate di Palenque, nell’ammirare le acconciature delle donne di pelle nera, nel rispondere ai saluti della gente e agli inviti ad entrare nelle loro case, nell’ascoltare le storie di alcune di queste persone, ho sentito il richiamo dell’Africa. L’ho sentito nel suono della sua lingua, quel creolo che coniuga la musicalità dello spagnolo e la durezza del bantù. Una lingua parlata da non più di 4000 persone che per loro era, ed è, un simbolo di identità.
Un popolo povero, umile, senza ricorsi, che tuttavia è riuscito a imporre la sua autorità sull’oppressore attraverso la possanza fisica degli africani e lo spirito sanguigno dei latini.