DONNE che viaggiano. DONNE che ballano. DONNE che vivono.
DONNE che raccontano. Non a caso succedono certi incontri.
Quando sono arrivata a Puebla la banda stava suonando il Vals de la Reina del Mar.
Puebla non è sul mare, e non è nemmeno una regina.
Una cosa però è certa. Puebla è una donna. Una donna del popolo.
Una di quelle donne che la mattina non si sveglia riposata.
E’ spettinata, confusionaria, sfacciata. Una donna vera, che ti può piacere, oppure no, ma che non sarà mai capace di deluderti perché è come la vedi. Non ti racconta bugie.
E non so se sia stato il valzer, il sabato pomeriggio, il vento, quel vento fresco ma non freddo, presente ma non ingombrante, so solo che l’ho vista donna, subito, sfacciatamente.
E’ donna in tutto.
Nei monumenti e nei palazzi barocchi, nel grigio della sua cattedrale che si staglia su un sfondo viola che fa da contrasto al cielo e alla gente che la osserva da sotto.
E non ci sono colori pastello nelle vie di Puebla.
E’ tutto acceso, mai eccessivo. Ogni cosa resa più dolce da un fiore, da una bandiera, da un drappo appeso ad un balcone. Esattamente come una donna di carattere. Forte, senza bisogno di aggressività. Dolce, senza la paura della debolezza.
E noi stavamo lì, a fotografare momenti e cogliere impressioni, con decine di ragazzi in mezzo al traffico in cerca di un abbraccio, quando mi sono accorta che Puebla non è solo una donna. Puebla è una città fatta di donne.
Non so se sia stata la fascinazione a trascinarmi dove sono arrivata, fatto sta che in questo posto, a colpirmi, sono state loro, le donne.
Le anziane, per prime. Le loro vestaglie a fiori, gli scialli sulle spalle e sulla testa, quasi fossero state sorprese così dall’arrivo della modernità. Cristallizzate nei loro vestiti fuori dal tempo, con le facce segnate che mi immagino affacciarsi ancora alle porte di baracche dalle tendine di paglia intrecciata.
E poi le loro figlie, donne uscite da quelle porte per camminare con Puebla, fino a vederla arrivare ad oggi.
Ed è stata una donna, ferma al semaforo, ad indicarci la Casa della Cultura.
“All’una fanno un concerto di musica popolare, dovete andare”, ci ha detto.
E in terra straniera, i consigli, soprattutto a bordo strada, si accettano sempre.
All’una, così, siamo andate. C’era un’altra banda, c’erano i ballerini con i costumi che al solo vederli sventolare ti sembra di sentire quell’odore che riconosci messicano chissà perché, chissà da dove.
C’erano sorrisi, applausi, gente seduta e gente in piedi.
E poi c’era un gruppo, di donne. Saranno state quaranta, forse cinquanta.
Mi hanno colpita perché si muovevano tutte insieme pur non essendo unite da nulla di evidente. Non dall’età, non dal paese, non dal modo di vestire. Dai trenta ai settantanni, alcune orientali, altre sudamericane, alcune europee. Ma erano tutte lì, insieme, a ballare una canzone popolare di un’imprecisata regione messicana.
Mi sono avvicinata, convinta che le casualità siano tali solo se te le lasci passare inerte davanti agli occhi.
E quelle donne erano unite da una professione.
Erano giornaliste, a Puebla per partecipare ad un convegno internazionale dedicato alla Violenza sulle donne.
Venivano dalla Cina, dalla Colombia, dalla Spagna, dall’Argentina, dal Cile.
Ho parlato con loro, in una ridicola lingua a metà tra lo spagnolo e l’inglese per poi accorgermi che le barriere non sono mai linguistiche. Non soltanto.
Hanno visto noi, sei donne italiane in viaggio per il mondo per aiutare altre donne vittime di violenza. Per una Casa delle Donne che per noi è a Brescia ma che per loro è a Buenos Aires, a Madrid, a Pechino.
Le abbiamo salutate, solo il tempo di un abbraccio perché il loro pullman era già pronto a partire.
E così, con in tasca il biglietto da visita di Eva Virginia, la presidente della “Casa delle Donne” di Puebla, abbiamo cercato un posto per andare a mangiare.
Il posto era lì, sulla strada.
Da donna il nome, da donna l’arredo, con le ceramiche a contenere cibi che sembra siano stati assemblati per come riescono a combinarsi i colori per scoprire solo poi che pure i gusti ci stavano bene. Con le tovaglie rosse, azzurre. Con le donne in cucina e solo donne sedute ai tavoli. Abbiamo mangiato e della “sopa del estrella”, una zuppa con le stelline, come quella che si mangia da bambini, e delle “enchilladas”, fatte di mais, di salsa, di pollo, mi è rimasto il sapore di quella fascinazione che mi ha rapito in piazza, al momento del valzer, della signora con il grembiule, delle giornaliste di tutto il mondo che si muovevano al ritmo del “Son de la negra”.
Non ho approfondito se la mia sia stata un’impressione sbagliata, come un’infatuazione che si spegne quando capisci di esserti cucita addosso quello che avresti voluto indossare.
Ho solo pensato ad una frase che una delle cinque donne del mio team mi ha detto, subito prima di partire.
“La cosa difficile di questo viaggio sarà il tempo. Sarà un po’ come aprire una porta e avere pochi istanti per capire che cosa ci sia dentro una stanza”.
Ed è proprio così. In quei pochi istanti puoi cercare di capire tutto, e non afferrare niente. Puoi mettere a fuoco un particolare soltanto, insignificante, e perdere ogni cosa. Puoi mettere a fuoco un particolare soltanto, e capire una parte importante. Magari solo per te, però è già un’impressione che ti scatta nelle mente, come una foto. E lì rimane.
E per me Puebla rimarrà questo.
Una donna.
Dalle vestaglie ai fiori, alle rughe di un’anziana. Dalla musica in piazza, al vento leggero. Dalla cannella nel caffè, alle stoffe appese ai balconi.
Fino ad un biglietto da visita, di una giornalista di Taiwan. Qui, con altre donne come lei, come noi. A Puebla, in questa città messicana forte dal retrogusto sentimentale, per parlare di donne e per avere, in una parte imprecisata del mondo, altre storie da raccontare.
(team 7MML)