Il cielo è terso e chiaro, nell’estate sudafricana, ma il mare bolle burrascoso. Non poteva essere diverso qui, su questo promontorio di leggenda. Vento forte, pungente, che arruffa i capelli e gli animi. Spruzzi vaporosi di cavalloni infranti. Scogli verticali, smussati da milioni di secoli di flutti. Guardando l’orizzonte a sud, vediamo le navi che colano a picco, sentiamo le grida disperate dei marinai ingoiate dagli oceani. Lamenti antichi come le esplorazioni, voci di navigatori, portoghesi, olandesi…
Ci par di sentire anche quella di Bartolomeu Diaz, che dal 1487 ci parla, esulta, ce l’ha fatta! Finalmente l’ha doppiato, il Capo delle Tempeste, il Capo di buona speranza! Capo maledetto… o porta benedetta verso le Indie, verso i tesori d’Oriente. Da quel giorno è cambiato il mondo. L’Europa è uscita dall’Europa e ha dilagato, per mare, nel mondo.
Noi però guardiamo a settentrione. Spalle all’Antartide, pensiamo a tutto il continente che ci aspetta. E ci sentiamo piccoli, di fronte a tutto quell’ignoto. E ci sentiamo grandi, davanti a quest’impresa. Non è il punto più meridionale d’Africa, primato del vicino Capo Agulhas, ma il più simbolico di certo. Da qui, il Team, il primo africano, volge la prua a nord per non guardar più indietro. Qui, lasciamo le acque fredde, dimora di pinguini (sì, pinguini, quelli veri, in Africa!), per cominciare la lunga risalita tra i leoni, che terminerà fra sei settimane a Malindi, Kenya, dove il testimone passerà all’ultima tappa. Fino a casa.