LIVINGSTONE, SUPPONGO
Un giorno, un afrikaner namibiano, grosso e biondo, quando gli ho detto che saremmo andati in Zambia, m’ha risposto, con disprezzo: “Ah! Là è tutto molto british. Bevono il tè alle cinque” (gli afrikaner namibiani odiano i britannici, che li hanno scalzati dalla gestione del ‘loro’ territorio). Ora, non so bene a cosa si riferisse, dato che qui, in Zambia, appunto, l’Africa è profonda, calda e nera. E ruvida. Di certo parlava dei residui della colonia, quand’era la Rhodesia del Nord (fino al 1964), che però, per le strade o nei mercati, quasi non si vede. Anche se so che è ben presente dietro le scrivanie. Io mi sono invece immaginato, forse per via della mia fissa per gli esploratori, David Livingstone seduto davanti alla sua tenda da campo nella savana, sul far della sera. Sorbiva il suo Earl Grey servitogli dal suo servo nero in guanti bianchi, mentre annotava sul suo diario la mirabile visione (e l’ubicazione) di queste cascate, la prima di occhi europei, il 16 novembre 1855. Le cascate che da quel momento si chiamarono Vittoria, come l’allora regina d’Inghilterra, destinataria della sua scoperta.
Ora che son qui, però, al loro cospetto, non riesco a vederlo quel pezzo d’Inghilterra. Davanti agli occhi, in faccia, impregnato nei vestiti, c’è il Mosi-oa-Tunya, il Fumo che tuona. Così, le chiamano da queste parti. Quel che son sempre state. Qualcosa di reale, potente e fradicio come i vapori che si sprigionano dalle fornaci liquide del suo chilometro e mezzo di gole, quelle dalle quali precipitano le acque dello Zambesi, che solo qualche metro prima scorre placido e grasso (è il quarto fiume africano), come non sapesse quel che lo aspetta.
Oggi, pinguini incerati contro la furia del fumo, che non solo tuona, ma lava, pure, con raffiche fitte da acquazzone, tocca anche a noi aggirarci per le sue balconate naturali, ammirando gli arcobaleni che affiorano dalla voragine e che non si dileguano mai.
Come la nostra meraviglia.