JURASSIC LAND
Deserti di sabbia, deserti salati, deserti petrosi. Spigoli aguzzi, polvere rossa di ferro, croste di lava. Il Namib, la Skeleton Coast, e poi i massicci montuosi, che s’ergono, primedonne, scenici, solinghi, sull’altopiano dello zoccolo africano (500-1200 m). Il Brandeberge, il monte più alto del paese (2573 m). Lo Spitzkoppe, che da sud par la mandibola d’un coccodrillo. Le Table Mountains, tavolati di roccia come quella, orfana, di Città del Capo, o come le ambe d’Etiopia. I canyon foderati d’eruzioni verticali levigate come canne d’organo. Il paesaggio namibiano è minerale, con qualche ciuffo verde acacia, con rovi e arbusti che foran le gomme. E i suoi poco più di due milioni di abitanti si perdono nelle poche città dileguate oltre le savane o nelle fattorie d’eremiti al centro di proprietà grandi come regioni. E cintate con recinti che non risparmiano nemmeno le piste (“Keep the gate close”, richiudere il cancello!).
Tra i sassi, nel bush, a fior di terra, ecco che sbucano tronchi vecchi d’eoni, d’alberi antichi dilavati da chissà dove, chissà quando, in una valle ch’era un lago di pascolo di brontosauri. È la Foresta Pietrificata, nel Damaraland, ora terra di bantu damara, zona di popolamento antico dove i boscimani di mille generazioni fa, originari abitanti ora scacciati, s’incontravano (a Twyfelfontein, ora sito UNESCO) per parlar della caccia, per adorare gli dei di natura, per celebrare le prede della loro atavica sopravvivenza. E i macigni d’arenaria rossiccia portano i segni da loro tracciati nei convivi, nelle notti di luna. Una mappa, coi pozzi, che ora non ci sono più, gli elefanti, le giraffe, gli orici, incisi col quarzo dai primi artisti del genere umano, quattro, cinque, seimila anni fa. E il dio leone, con la coda che saluta chissà chi, con la sua mano sciamanica.