LA GOCCIA DI SANGUE DI CLARITA
Hornaditas non è un vero e proprio paese, è una località con tante case disperse qua e là, tra macchie di grandi cactus cardon e di churqui spinosi e verdi. Nell’arsura polverosa della Quebrada de Humahuaca, impavesata con i colori sgargianti delle montagne del Jujuy, il cartello Hornaditas passerebbe inosservato come quelli di altri “parajes” lungo la Ruta 9 che scende dalla Bolivia, attraversando gli ultimi territori argentini dove vivono comunità indigene. Ma grazie a doña Clarita e alla sua famiglia, Hornaditas da qualche anno è diventata uno dei santuari dell’orgoglio indio della Quebrada.
Raggiungiamo la casa dei Lamas, scendendo un ripido sentiero tra rovi da un lato e piccoli appezzamenti di insalata ben curati dall’altra. Doña Clarita è lì, sotto una tettoia, con la figlia più piccola Gabriela che pulisce verdure e impasta acqua e farina, insieme a due amici uruguayani che sono venuti a trovarla. Il marito, scopriremo poi che si chiama don Hector, un volto indio che squarcia il riverbero del sole a picco, è accanto al forno costruito con mattoni di fango e paglia, a cuocere il pane…Lei ci viene incontro e ci bacia sulla guancia come fossimo da sempre di casa, sorpresa dall’imbarazzo di qualcuno di noi (“Non sarà perché sono morochita, scura di pelle?” si schernisce). Nemmeno il tempo di riprenderci e di renderci conto dove siamo che già siamo nell’orto a raccogliere verdure per il pranzo da preparare, e poi nel recinto vicino a mungere le capre per avere il latte con cui fare il formaggio. A pranzo, prima di sederci tutti insieme attorno al tavolo rustico, sotto la tettoia fatta con legno di cactus rinsecchiti, si ringrazia la Madre Terra e si ricordano gli antenati che insieme alla loro saggezza hanno trasmesso alla famiglia la loro “gota de sangre”.
Clarita ha deciso di uscire dall’ombra una decina di anni fa superando la ritrosia degli indigeni locali, giustificata da secoli di sfruttamento ed emarginazione. “Insieme ad Hector abbiamo voluto aprire la nostra a casa a chi viene da uguale, per condividere le nostre giornate e il nostro cibo…” Qui da quattro generazioni viveva la famiglia di Hector, una famiglia di sciamani . “Non volevamo che tutta la nostra cultura rimanesse solo un patrimonio nostro… Vogliamo proteggere la Pachamama, dar valore alle radici e alle gocce di sangue che danno identità a ciascuna comunità indigena senza rinchiudere in un parco. Per questo qui le porte sono aperte per tutti quelli che vengono come ospiti pronti allo scambio, non per fare i turisti del folklore…”.
La scelta finora ha consentito ai Lamas di restare sulla loro terra riuscendo a dare un futuro ai quattro figli, tutti studenti universitari o alle superiori. “Con l’arrivo dei visitatori, ho scoperto anche che si poteva giocare”, è il “segreto” che ci rivela la sedicenne Gabi, a cui piace studiare lingue. “Prima, da piccoli, non eravamo abituati a giocare, dovevamo sempre fare qualcosa: seguire le capre, andare dell’orto o sbrigare le cose di casa. Ora quando sto con le persone che ci vengono a visitare per me è un divertimento e imparo molto”.
Hector è più taciturno, ma è lui ad accompagnarci dopo pranzo a visitare il sito delle incisioni rupestri. ” Non posso parlarvi come un archeologo, ma vi racconterò quello che mi disse mio nonno quando a sei anni mi portò a visitarle per la prima volta…E perché non le calpestassimo ci fece credere che dopo averci camminato sopra tre volte, sarebbe apparso il diavolo”. Si allarga in un sorriso il volto indio. Sorridiamo anche noi. Sì, anche i “buoni diavoli” si nascondono nei particolari, bisogna solo tendere l’orecchio, e insieme la mano. E porgere la guancia per scambiare un bacio di saluto senza spaventarci se sono più scuri, o più bianchi, di noi.
Gabriele