Ha amato ed accolto in modo straordinario ogni categoria di bisognosi
Vercelli
“Don, spero proprio che Dio sia come te, così non avrei dubbi sull’ essere salvato”.
Non ricordo se ebbi una risposta, ma di certo aveva perdonato con un sorriso la mia blasfemia ed il mi aveva accarezzato, felice d’avermi donato l’unica cosa di cui avevo realmente bisogno.
Speranza. La Buona Novella.
Don Luigi era un uomo, don Luigi era un prete, ed era autenticamente entrambi.
Il Don era, è e sarà. Che mi suona così amorevolmente simile a quel “Io sono” da cui tutto ha avuto inizio ed in cui tutto non avrà mai fine.
Per quanto rapito dall’esempio di Cristo, malgrado così umile da farsi strumento di Dio, il Don non era un seguace, non era un mezzo, non una copia sbiadita dell’Originale.
Era semplicemente e straordinariamente colui nel quale il sogno di Dio ha preso corpo.
Quindi nulla di più di ciò che siamo tutti, eppure unico perché la sua essenza spirituale è stata sempre una sola cosa con la sua vita e il suo agire.
Come Vangelo vivo, il Don dava corpo ad ogni versetto, dando a chi chiedeva, vestendo e nutrendo chi non aveva nulla, sanando con l’Amore ogni forma di sofferenza, aprendo gli “occhi” nella vita di Chi come Tommaso, incapace di farlo da solo, “vedeva” attraverso il Don, con l’astrazione, la concretezza della Via, l’evidenza della Verità e l’eternità della Vita.
L’infinito risplendeva in ogni suo piccolo gesto, nella sua naturale attenzione a ciò che non sembra essere importante, a quell’incantevole susseguirsi di apparentemente inutili tenerezze.
Don Luigi avrebbe potuto compiere miracoli eclatanti, ma per lui era infinitamente più importante servire a tavola i suoi ragazzi, conoscere i nostri gusti. Avrebbe potuto salvare le anime con il clamore ed il potere della Fede e della sua Funzione, ma invece ad ogni incontro ti segnava la fronte benedicendoti, in modo che la tua anima riposasse serena, mentre ti rimetteva i peccati, senza conoscerli, perchè comunque Dio non li vedeva accecato come è dall’amore per ognuno noi.
Il Don ti descriveva il Paradiso e tu ne godevi con lui. E portava su di sé l’Inferno delle nostre sofferenze, lo annullava vivendolo nella sua carne, espiando in prima persona ciò che non avrebbe mai dovuto espiare e che noi non avremmo mai potuto sopportare.
Diceva di essere sorretto da una fede semplice, contadina. Quella che tutti noi vorremmo avere, quella del cuore, quella dei bambini e delle preghiere prima di coricarsi.
Quella degli angeli custodi, dell’atto di dolore, dell’eterno riposo, delle canzoni della nostra Prima Comunione, quella fede che ti fa dare una carezza sul viso della statua del crocefisso. Quel Cristo che sembrava quasi staccarsi dalla Croce per ricevere le carezze del Don.
Quella Fede così semplice e vera da far aprire la finestra nella camera di un morente, che aveva sofferto l’indicibile ma sorrideva aggrappandosi a quelle sue grandi mani, affinchè l’anima non trovasse ostacoli per salire al più presto da Dio.
Quella che ti fa accettare che per Dio non vi sia nulla di segreto nel nostro cuore, che tutto sarà perdonato con un amore infinito, che il bene trionferà alla fine e che c’è un meraviglioso aldilà che tutti ci attende, per una Vita eterna.
Un Vita che non solo ha sconfitto la morte, ma che si pone su un piano dove non vi è morte.
Ed è con questa certezza che il Don è morto.
Morto di consunzione, consumato dall’amore donato in eccesso ed in quantità tale da dover tornare al Padre per nuovamente continuare a donarne.
Adoro passeggiare per i cimiteri. Sembrano grandi e quiete sale d’aspetto. Come se fosse necessario attendere che il corpo decanti i desideri e l’anima riscopra le sue potenzialità. Ho quindi la sensazione che camminando tra le tombe qualcosa mi resti accanto, in mano. Dal Don non è così.
Anche nella morte, il Vangelo che in lui è stato Spirito e Carne, riafferma la sua Verità.
Davanti alla stupida inutilità di una lapide, il canto del Don continua, sussurrando:
“Non cercate tra i morti Colui che vive”.
(Progetto e fotografie di Luciano Perbellini)